Avengers: Age of Ultron – Una recensione sofferta

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Guardate, io sono ancora scosso, emozionato e sull’orlo della commozione più sincera. Ho staccato gli occhi dallo schermo e mi sono ritrovato in questa sorta di realtà ovattata, dove i buoni avevano vinto e tutto era possibile. Dove gli eroi volavano alti nel cielo.

Il Toro aveva finalmente vinto un derby. 

E, a proposito, il nuovo film di Joss Whedon è una grossa delusione. Non avrei mai pensato di scriverlo, ma tant’é. Onestà intellettuale significa anche saper accettare quando i tuoi eroi perdono, e una persona che segue settimanalmente il Toro è più che abituato a metabolizzare le sconfitte. Fa parte del gioco, perché poi quando ci si rialza è ancora più bello.

Mi aspetto che Whedon, di cui ho scritto già in lungo e in largo e che ribadisco essere uno dei miei autori televisivi e cinematografici di riferimento, se non una specie di “eroe” senza scudi o martelli magici di sorta, risorga da questo passo falso con più energia creativa e passione per la materia di prima. Mi aspetto che il suo inevitabile divorzio dalla Marvel gli permetta di tornare ad essere l’adorabile perdente che sono sempre stato abituato a seguire. 

Prima di scrivere e dirigere il terzo più grande incasso della storia del cinema, Joss in fondo era uno di noi. Gli è sempre un po’ girato tutto storto, e le sue sconfitte sublimavano esponenzialmente il piacere che si traeva nel gioire dei suoi risultati migliori. In poche parole, era il Toro. 
Anche quando uno studio in crescita verticale gli ha messo in mano la sua proprietà intellettuale più importante, quella che stava costruendo mattone dopo mattone negli anni, i famosi Vendicatori che mi hanno fatto saltare ripetutamente di gioia nel 2012, il signor Whedon non ha mai perso sé stesso. Ha confezionato un film di immenso intrattenimento, divertente, intrinsecamente gioioso e felice di esistere: un film dall’estetica televisiva ma con un cuore grosso così. 

Sono molto dispiaciuto nello scrivere che, per quanto mi riguarda, il miracolo non si è ripetuto nel sequel uscito nelle sale italiane il 22 aprile di quest’anno. “Avengers: Age of Ultron” è un giocattolone sconnesso e svogliato, con poca anima e troppa superficialità nella storia e nei personaggi. È paradossale se penso che le due cose sono sempre state il punto forte non solo della scrittura di Whedon, ma anche del brand cinematografico Marvel. 

In un certo senso, “Avengers: Age of Ultron” è filmmaking moderno nella sua essenza più puraÈ bieco intrattenimento confezionato a tavolino, che riesce nel delicatissimo esperimento di fare un film costituito esclusivamente da scene d’azione (su due ore e venti di film, a occhio e croce direi che sono circa 15 i minuti in cui non esplode qualcosa). La densità e la frenesia che muovono le scene l’una dopo l’altra è quasi demenziale. 

Mi dispiace se sembra che io batta sempre sugli stessi tasti, ma tengo ancora una volta a ricordare che (apparentemente) la responsabilità di questo film ricade su una persona che è famosa per la grazia e la sensibilità con cui gestisce tempi, empatia e relazioni umane tra i personaggi sullo schermo. 
Quando sembra che tutto debba accelerare, Whedon di solito rallenta. L’apocalisse è alle porte, e i nostri eroi sono seduti attorno a un tavolo. L’amore sta per trionfare tra due personaggi, e la cruda realtà si butta in mezzo ricordandoci che le azioni hanno conseguenze. 

Nel secondo capitolo degli Avengers, non ci sono conseguenze o quasi. La storia ruota attorno a un drammatico errore di Tony Stark / Iron Man, che genera un’intelligenza artificiale potentissima secondo cui l’unico modo di proteggere la vita sul pianeta Terra è sterminare la razza umana. Sulla carta, il materiale fumettistico per trarre una storia seria, profonda e complessa (con annesso spettacolo e “picchia-picchia” in abbondanza) è perfetto. C’è Ultron, un cattivo memorabile e terribilmente minaccioso con il quale i protagonisti hanno un legame diretto. Ultron è il motore dell’azione, il nucleo del film; o almeno, dovrebbe esserlo. 

La verità è che la premessa narrativa è gestita in modo imperdonabilmente superficiale: non c’è un momento per assaporare la nascita del “super-cattivo”, che è frettolosa e goffa. La nota doverosa che mi sento di fare riguarda l’interpretazione offerta da James Spader, che doppia e muove in “performance capture” l’androide: la sua prova si perde in un doppiaggio italiano imbarazzante (esteso a tutti i dialoghi del film) e probabilmente in lingua originale siamo su altri livelli. 

Nel corso del film, i vendicatori combattono al Forte di Bard, combattono a un party per festeggiare l’ultima battaglia, combattono in una città sudafricana. Si picchiano in Corea del Sud e in una nazione fittizia in Europa dell’est, per concludere combattendo anche in cielo. Le scene d’azione mettono in luce un buon livello nella CGI e delle coreografie interessanti, ma a volte confuse da una regia non perfettamente sicura.
Il problema è che, malgrado l’indiscutibile intrattenimento che il film assicura, tutta l’azione sottolinea e aggrava la questione di fondo: il cattivo è scritto male e poco interessante e non sembra mai essere un problema per i Vendicatori. Non ci sono conseguenze psicologiche, né ricadute emotive che valga la pena indagare. 

In aggiunta all’azione, c’è anche il tentativo di massimizzare il vero punto di forza del capitolo precedente. “The Avengers” eccelleva nella sua leggerezza e brillantezza, e “Age of Ultron” replica quella sensibilità per i dialoghi tipicamente da commedia che fa suonare i personaggi come se fossero un po’ tutti Joss Whedon. 

Ma non funziona bene come in passato. Qualcosa nella formula è andato storto, e non tutte le battute arrivano a destinazione come dovrebbero. In poche parole, non c’è un momento così:

Che volete che vi dica. Non sono una persona che si preoccupa più di tanto se gli piacerà o meno “Mia Madre” di Nanni Moretti, ma soffro intimamente pensando che non mi è piaciuto l’ultimo film di Joss Whedon. 

Non è un dolore di testa, perché la testa mi dice che va benissimo così. “Avengers: Age of Ultron” è un baraccone pieno di uomini volanti e robottoni, è solido intrattenimento primaverile come i Marvel Studios hanno garantito praticamente sempre da quando sono nati. È più che altro un dolore di pancia: lo stesso genere di sofferenza che si prova quando si guarda il derby. Ecco, il primo “The Avengers” era come un derby che vinceva il Toro. Avete presente quello che si dice sul vincere un derby, che sia meglio del sesso? Era più o meno quello. Era sesso con qualcuno che ami. 

“The Avengers: Age of Ultron” è come un derby vinto dalla Juve. Un sacco di aspettative, speranze ansia e anticipazione che vengono tradite da un brutto scherzo del destino. 

Davide Mela
@twitTagli

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