L’8xmille, lo Spirito che si fa Carne e la carità che diventa merce

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Sono rimasto estremamente colpito dall’ultima campagna pubblicitaria  realizzata dalla Chiesa Cattolica sul tema dell’8xmille. Innanzitutto per le proporzioni: un enorme battage mediatico, degno del lancio di un prodotto di consumo di successo quale l’Iphone o di un servizio diffuso e di tendenza come l’abbonamento ad una piattaforma televisiva via cavo.
Per mezzo degli spot televisivi (generalmente più lunghi rispetto alla media e collocati negli orari strategici dei pasti, in ossequio a quanto prescritto dal Vangelo degli esperti di marketing e media), degli spazi sui quotidiani e dei cartelloni presenti ovunque nella città (mi riferisco, in particolare, a quelli giornalmente trasportati, in lungo e in largo, dai pullman di linea) siamo letteralmente bombardati dalla questua, circondati e inseguiti dalla richiesta di un contributo da quando usciamo di casa la mattina sino a che spegniamo il televisore dopo la cena.

Questo sforzo imponente testimonia, meglio e con più forza di qualsiasi statistica a riguardo, l’importanza che il contributo annualmente stanziabile con la dichiarazione dei redditi riveste per la Chiesa. Non intendo addentrarmi in spinose questioni quali l’opportunità stessa dell’esistenza dell’8xmille; o la grave discriminazione cui sono soggette confessioni quali, ad esempio, quella mussulmana e quella buddhista, che continuano a rimanere escluse dal novero delle scelte effettuabili dal contribuente; o la poca pubblicità che viene data dalla Chiesa al concreto utilizzo dei fondi raccolti con l’8xmille (in minima parte impiegati in opere di carità); o, ancora, alla discutibilissima destinazione che lo Stato fa del contributo percepito, giacché di esso un’alta percentuale è impiegata nella manutenzione di edifici religiosi del culto cattolico (tacendo il fatto che i cittadini non hanno alcuna possibilità di sindacare e indirizzare, anche in maniera minima, l’operato statale).

Ciò che assorbe tutta la mia attenzione è infatti la pubblicità in sé, a prescindere da qualsiasi considerazione di altra natura, per quanto rilevante e controversa. 
Immagino quindi che tutte queste problematiche siano come d’incanto risolte: i denari totalmente impiegati dalla Chiesa nell’attuazione di opere assistenziali e caritative, le confessioni in una posizione di parità reciproca, uno Stato né spettatore impotente né complice interessato, ma protagonista attivo e lungimirante nella gestione della sua (nostra) fetta di contributo; voglio che l’orizzonte sia sgombro, affinché lo sguardo possa essere libero di concentrarsi sull’oggetto del mio interesse, la campagna pubblicitaria.

Innanzi tutto, lo slogan: “Chiedilo a loro“.
Ed eccoli, “loro”: un bambino africano, occhi neri sbarrati e rivolo incrostato di latte all’angolo della bocca semiaperta e un vecchio con la grigia barba incolta, grandi occhi acquosi (sguardo espressivo veicolo di emozioni: ecco di nuovo la Bibbia dell’esperto di media) che ti osservano con evidente vergogna.
E poi ancora, l’ex drogato, il prete che è rimasto vicino alla sua comunità di terremotati, l’assistente sociale della zona degradata di Bari, l’ex bambino soldato ora studente modello, la suora che si prodiga per gli anziani che vivono a Pantelleria.

La filosofia è semplice. Il messaggio, più che essere diretto a suscitare nell’osservatore un sentimento di pietà o di compassione, vuole dare una cognizione immediata dell’estrema utilità che consegue a quel semplice, banale gesto di crocettare una casella nella dichiarazione dei redditi; minimo sforzo, massimo risultato.
Tuttavia, è impossibile non notare la rivoluzione concettuale che sta dietro a questo meccanismo apparentemente innocuo e rivestito delle migliori intenzioni (mi sforzo di ricordare a me stesso che sono ancora nel mondo perfetto privo di secondi fini).

 

La carità è diventata merce, così come lo Spirito si è fatto Carne. La più grande fra le tre virtù teologali (Prima lettera ai Corinzi, 13,13) ha subìto un processo di reificazione che le ha permesso di uscire dal perimetro santo delle chiese per contendere all’acqua (lievemente frizzante o frizzantissima) e alla benzina a prezzi scontati un posto nella trincea del prime time. 
I beneficiari delle opere di bene smettono quindi i panni dell’anonimato, ergendosi al di sopra dell’umanità bisognosa e informe per rivestire il nuovo ruolo loro assegnato dalla Sacra romana Chiesa dello Spettacolo: il testimonial.

 

Testimonial della carità: che distanza dall’ammonimento spesso ripetuto ai miracolati da Gesù nei Vangeli di non raccontare ciò che era loro accaduto, per non precorrere i Tempi delle Scritture!

La Chiesa, contrariamente a quanto affermano i suoi più accaniti detrattori, si sta evolvendo velocemente, ricettiva ed aperta agli stimoli che giungono da oltre il Tevere.
Conscia della perdita del proprio primato spirituale, combatte con le armi delle grandi corporation, che per risollevare il proprio marchio sporco di fango (e, spesso, di sangue) investono ingenti capitali in iniziative di green economy e progetti di rilevanza sociale.

 

In questa ottica, le grandi battaglie strenuamente combattute da alti prelati, armati sino ai denti di dottissimi argomenti teologici (eutanasia, testamento biologico, diritti degli omosessuali, relativismo etico e contraccezione), possono essere concettualmente riconfigurate.

Non tanto o non solo come delle mere petizioni di principio, cui rimanere coerentemente aggrappati per non perdere la propria identità, bensì come altrettante caratteristiche di un prodotto, la Comunione dei fedeli.

Caratteristiche sulle quali è possibile agire, attraverso un sapiente gioco di aperture e chiusure, a seconda delle convenienze dettate dal mercato.

Un prodotto per il quale il suo Primo e più noto testimonial avrebbe forse scelto un packaging diverso.

Stefano Mongilardi
@twitTagli

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