Intervista ad Alberto Alpozzi: scatti di guerra tra Afghanistan, Kosovo e Libano

Alberto Alpozzi è un giovane fotoreporter torinese che un anno fa ha deciso di intraprendere una serie di reportage nei tre teatri operativi in cui sono impegnati i militari italiani.

Ha cominciato dall’Afghanistan dove ha trascorso le festività natalizie insieme al contingente; ha proseguito quest’estate in Kosovo per documentare il lavoro di peacekeeping tra serbi e albanesi; è tornato da qualche giorno dal Libano dove gli italiani sono impegnati nella missione di ricostruzione e controllo in seno al contingente Unifil. Da ognuna di queste esperienze Alberto è tornato con un bagaglio di sensazioni e impressioni.

Quello che appare subito chiaro dal racconto dei suoi viaggi è che noi, qui in Italia, abbiamo una percezione decisamente sbagliata del lavoro che i militari compiono all’estero, molto spesso veicolata dalle notizie che i media riportano. Notizie che non raccontano la verità o non la raccontano fino in fondo, soprattutto tralasciando l’aspetto umano ed umanitario di queste missioni. Difficilmente infatti troverete sui quotidiani italiani un resoconto dettagliato della vita dei nostri ragazzi, che tra loro si chiamano “fratelli”. In questa intervista Alberto ci racconta la sua recente esperienza in Libano.

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Alberto, sei reduce da un reportage in Libano dopo aver toccato gli altri due teatri operativi dei nostri militari in Kosovo e prima in Afghanistan: che cosa ti ha spinto a intraprendere queste esperienze?

La risposta può sembrare banale, ma fa parte del mio lavoro. Mi piace questa parte del mio lavoro, che mi permette di vedere cose che altrimenti non vedrei e di portare una testimonianza. Questo perché in Italia i media sono sempre troppo impegnati a parlare di boiate, e si preferisce sempre dividere anziché unire. All’estero, nelle missioni di pace in cui sono impegnati i nostri ragazzi, ho riscontrato quello spirito di unione e fratellanza che vorrei fosse vivo anche in Italia. Ho ritrovato in tutti e tre i teatri degli ideali e una moralità che qui non ci sono più. È importante invece far capire che i nostri connazionali all’estero sono impegnati a costruire laddove non c’è nulla.

Qual è attualmente la situazione del Libano?

Io sono stato nel sud del Paese, dove si trova il confine con Israele, e lì la situazione è sotto controllo. I nostri militari e il contingente Unifil sorvegliano il confine, la cosiddetta Blue Line, per scongiurare movimenti sospetti. Il contingente italiano sta portando aiuto anche alla popolazione perché, sebbene la guerra sia finita nel 2006 con l’intervento delle forze internazionali, in Libano ci sono ancora molti problemi. Nel sud manca la corrente elettrica, hanno soltanto due ore di corrente al giorno e spesso capita che salti improvvisamente bruciando elettrodomestici ed apparecchiature. Ci sono famiglie che magari hanno risparmiato per permettersi un frigorifero e poi gli sbalzi di corrente mandano in fumo tutti i sacrifici. Non mancano però gli elementi positivi. I bambini di sei anni che hanno iniziato la scuola quest’anno sono la prima generazione ad aver vissuto senza la guerra.

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Come vengono percepiti dalla popolazione i nostri soldati? E quali sono i compiti del contingente?

Sono benvoluti ed apprezzati perché vanno là a creare qualcosa di necessario, sulla base delle richieste specifiche avanzate dalla popolazione stessa. E poi gli italiani, rispetto agli altri contingenti, hanno una grande capacità: quella di ascoltare e di parlare alla gente, e questo è molto importante. Diciamo che siamo molto bravi nel farci prendere in simpatia. Per quanto invece riguarda le operazioni, gli italiani insieme ai cinesi stanno sminando il confine sud dove sono ancora presenti mine messe 30 anni fa. I compiti sono soprattutto quelli di controllo e ricostruzione.

Qual è stato il nostro contributo alla ricostruzione finora?

Le missioni possono sempre contare su fondi del Ministero della Difesa, fondi governativi e in parte anche privati. C’è un aneddoto che mi ha molto colpito. In un villaggio c’erano una madrassa e una chiesa cattolica che necessitavano di ristrutturazioni urgenti, e i fondi bastavano appena per ristrutturarne una delle due. Il villaggio era a maggioranza islamica (solo 20 famiglie cristiane a fronte delle 400 islamiche), ma gli abitanti si sono riuniti in assemblea e hanno votato per destinare quei fondi alla ristrutturazione della chiesa. A dispetto di quanto si legge e si sente sempre, non c’è alcun conflitto o guerra di religione: cristiani ed islamici convivono pacificamente e si rispettano. I fondi governativi invece sono andati a finanziare la realizzazione di un museo nell’area archeologica di Tyro. Ci sono poi piccoli comuni o municipalità italiani che fanno collette e raccolte di fondi da inviare per ristrutturare piazze o edifici.

Cosa puoi dirci dei nostri ragazzi al fronte?

Hanno una grandissima voglia di condividere le loro esperienze, di parlare e di far passare all’esterno (e soprattutto in Patria) che stanno svolgendo un lavoro importante. Come ha detto un generale, molto spesso per questi ragazzi si tratta di una scelta occupazionale che finisce per diventare una scelta di ideali. Per questo trovo piuttosto banale la solita frase “Vengono pagati per farlo”, perché chiunque viene pagato per fare un lavoro: perché loro non dovrebbero venire retribuiti per quello che fanno? Ricordiamoci poi che la vera politica estera la fanno i militari, non i diplomatici o i politici.

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Quali sono le differenze tra i tre teatri operativi che hai visitato, Afghanistan, Kosovo e Libano?

Sono scenari diversi. In Kosovo e in Libano i nostri soldati sono impegnati in operazioni di ricostruzione, pacificazione e mediazione. In Afghanistan, per via del clima e della situazione politica del Paese, i compiti sono diversi, certamente più strategico-operativi rispetto a Kosovo e Libano. In tutti i casi comunque si tratta di missioni di pace, ricordiamoci sempre che il nostro paese ripudia la guerra come strumento di offesa.

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Sei tornato in Italia proprio quando in Medio Oriente si riaccendevano le tensioni: pensi che il contagio possa interessare anche il Libano?

Mi auguro di no, ma il rischio non è così remoto. Il Libano è stretto tra Israele e la Siria dove la guerra sta continuando. Se il conflitto dovesse protrarsi oltre gli episodi di questi giorni, ci si potrebbe aspettare un coinvolgimento anche del Libano: in quel caso i nostri militari rappresenterebbero la prima linea.

Come si svolgeva una giornata tipo?

Dopo la sveglia e la colazione in mensa c’era solitamente il briefing per illustrare le operazioni della giornata, nel quale a noi giornalisti venivano forniti i consigli per tutelare la nostra incolumità. Poi si partiva con i mezzi verso il confine per le operazioni di pattuglia o di check-point per tutta la mattina. Lo stesso copione si ripete poi al pomeriggio, e anche alla notte, perché il lavoro dei nostri militari non conosce soste, nemmeno il sabato e la domenica.

Da un punto di vista giornalistico quali sono state le tue sensazioni?

Fare fotografie è stato molto difficile. Le torrette israeliane sono quasi impossibili da fotografare, perché i militari israeliani non vogliono nemmeno essere fissati. Addirittura i mezzi del contingente di pace quando arrivano al confine devono avere le armi puntate verso il Libano e non verso Israele. Nei villaggi è altrettanto difficile perché la popolazione, dopo i bombardamenti di molti anni fa, teme ancora che i fotografi siano agenti del Mossad incaricati di fornire particolari e coordinate per i bombardamenti.

La prossima destinazione?

Dovrei ritornare in Afghanistan a dicembre, ma per il momento non c’è ancora nulla di sicuro.

Alessandro Porro
@alexxporro

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