
L’Iraq impegnato contro l’Iran dal 1980 al 1988, l’Iraq della Guerra del Golfo nei primi anni Novanta e l’Iraq della Seconda Guerra del Golfo cominciata nel marzo del 2003.
Era però dal dicembre 2011, mese in cui venne portato a termine il ritiro delle truppe statunitensi per volontà di Obama, che i giornali di tutto il mondo non dedicavano una così intensa attenzione all’Iraq.
Cosa bolle di nuovo in pentola nel Paese guidato dal 2006 dal primo ministro sciita Nuri al-Maliki?
I miliziani dell’ Isil ( lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante) il cui obiettivo è creare un califfato jihadista che comprenda le aree di confine tra il sud della Siria e il nord dell’Iraq, sembrano inarrestabili. Dopo Mosul, la terza città irachena per numero di abitanti, anche Tikrit, città natale di Hussein, e Ninive cadono sotto il controllo dell’organizzazione estremista che in Siria ha ottenuto più vittorie contro il regime di Assad di tutti gli altri gruppi ribelli e che si dirige ora verso Baghdad.
CASUS BELLI
L’Iraq a maggioranza sciita – che ciononostante rappresenta una minoranza nella religione islamica mondiale- ha rivisto la luce solo dopo l’intervento degli Stati Uniti nel 2003. Il regime del sannita Saddam Hussein, infatti, aveva spesso adottato una malcelata politica discriminante e talvolta palesemente persecutoria nei confronti degli sciiti, e solo l’arrivo delle truppe occidentali aveva permesso una sorta di rivincita.
I sunniti erano stati infatti improvvisamente emarginati dalla politica e dall’esercito, molti di loro non si erano limitati ad alimentare le file dell’opposizione a Bush e all’Occidente, ma si erano anche recati in Siria, dove avevano trovato rifugio e un solido appoggio dall’alleanza con gli oppositori di al Assad, alavita e dunque sciita.
Questa costante dicotomia tra Sunniti e Sciiti è all’origine del caos e delle guerre civili in vigore nel Paese da molto tempo, ma sa coinvolgere nella sua orbita anche la politica estera di altri Paesi.
COME REAGISCONO GLI ALTRI
Il Presidente iraniano Hassan Rouhani si è detto infatti pronto ad “aiutare il governo iracheno nella sua battaglia contro gli insorti sunniti” e per farlo sarebbe pure disposto a tendere la mano, di solito tenuta gelosamente in tasca, ad Obama; quest’ultimo, dal canto suo, ha confermato l’impegno della Casa Bianca nell’aiutare a risolvere la questione irachena, ma il punto di svolta sarebbe nell’impiego di truppe di soccorso impiegato. La comunicazione ufficiale verrà fatta nelle prossime ore, ma si è già detto deciso nell’evitare l’impiego di soldati o marines, che verrebbero molto probabilmente rimpiazzati dall’impiego di droni.
La NATO ha chiesto la liberazione immediata di una cinquantina di cittadini turchi presi in ostaggio dall’ISIL nel consolato turco di Mosul l’11 giugno e persino l’Ayatollah Ali al-Sistani, la più grande autorità religiosa sciita dell’Iraq, ha lanciato il suo appello alle armi a tutti gli iracheni in grado di combattere. Così ora il Paese è percorso da due traffici umani: il primo riguarda i giovani o meno giovani volontari che si dirigono verso Baghdad per arruolarsi nell’esercito della resistenza e respingere l’avanzata dell’ISIL. Il secondo flusso di persone, quello più preoccupante da un punto di vista umanitario, riguarda il mezzo milione di profughi in direzione opposta, verso il Kurdistan o la Siria, in fuga dal loro stesso Paese che non sa più come tutelarli.
In fuga da quell’Iraq senza pace a cui da tempo non venivano dedicate prime pagine pensando con elementare banalità che le cose andassero meglio.
E invece.
Elle Ti
@twitTagli