Il Kosovo ha finalmente la sua Nazionale di calcio

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La Piana dei Merli è una distesa di terra in seno al Kosovo. È dove, nel 1389, ci fu una delle più importanti battaglie della storia medievale dell’allora Regno di Serbia dei Nemanjic. Fu in quella data, infatti, che l’impero ottomano sconfisse la cavalleria serba, dando il là al dominio su quella che nel 900 divenne la Jugoslavia. Una sconfitta clamorosa, ma allo stesso tempo eroica: ingredienti che, da soli, bastano per la nascita del culto nazionalista.
Bisogna partire da qui, infatti, per spiegare il nazionalismo serbo e le sue pretese sul Kosovo: un cazzotto di terra nel cuore della Serbia, ma a maggioranza albanese e conteso politicamente dai due Stati. Perché dalle eroiche gesta della cavalleria, alla polveriera balcanica sono passati seicento anni, ma la retorica e la mitologia non invecchiano, anzi crescono e si moltiplicano.
Nonostante la maggioranza di etnia albanese, il Kosovo è da sempre considerata dai serbi una provincia autonoma, ma sottomessa all’autorità di Belgrado. E lo è stata, effettivamente, fino al 17 febbraio 2008, quando il governo di Pristina si è autoproclamato indipendente.
A partire da quella data, la metà dei Paesi Onu ha riconosciuto lo status indipendente del Kosovo, ma l’altra metà nicchia ancora. Quando non si oppone del tutto. Come nel caso della Serbia, i cui rigurgiti nazionalisti sono tutt’altro che spenti. O della Russia, sempre stata interessata a Belgrado e spesso pronta a sostenere la Serbia, come nella Prima Guerra Mondiale. E anche della Spagna, i cui germogli indipendentisti, catalani e baschi, potrebbero trovare humus nel caso kosovaro.

La Serbia è ovunque ci sia un serbo

Ma il processo che ha portato all’indipendenza di Pristina dalla Grande Serbia ultranazionalista è passato da uno dei peggiori conflitti europei del dopoguerra. Gli anni Novanta hanno segnato definitivamente la fine del progetto dello Stato federale Jugoslavo e terzomondista di Tito e l’ascesa dell’espansionismo politico della Grande Serbia, concetto riesumato dalla mente di Slobodan Milošević. Per tutto il decennio la penisola balcanica è stato il teatro di aberrazioni e crimini contro l’umanità, sotto l’occhio assente – quando non complice – delle democrazie occidentali e delle Nazioni Unite.
Dopo Slovenia, Croazia e Bosnia, infatti, Milošević volle schiacciare ogni forma di indipendentismo interno al “suo” territorio. A partire dalle forme di resistenza non violenta del presidente kosovaro Ibrahim Rugova, fino a quelle armate capeggiate dai guerriglieri dell’Uck, d’influenza albanese.
L’obiettivo di Milosevic era coerente: affermare il principio che “la Serbia è ovunque ci sia una tomba serba”.

È a partire dal 1996 che il conflitto tra Uck ed esercito serbo si fa più aspro. In tre anni si contano circa 5mila morti tra kosovari e serbi, la maggior parte civili, complici anche i bombardamenti Nato sulla Serbia: centinaia di raid aerei al giorno, spesso rivolti su obiettivi civili.
Una conta di cadaveri che va sommata alle oltre 200mila vittime civili di tutte le altre guerre jugoslave e agli 800mila profughi albanesi di Kosovo. In pratica un’intera generazione cancellata.
Al termine del conflitto armato, il Kosovo divenne un protettorato dell’Onu, periodo nel quale non sono mancati tumulti popolari indipendentisti. Fino al 2007, anno delle prime libere elezioni e, un anno dopo, la proclamazione d’indipendenza da Belgrado. 

I conflitti nel calcio

Come spesso accade, politica e sport si fondono. Basta rileggere le parole del tennista serbo Novak Đoković dopo quel 17 febbraio 2008, per coglierne tutta l’importanza.“Immaginate gli Stati Uniti privati di uno Stato che fu la culla della loro storia. Ecco, questo è il Kosovo per la Serbia. Purtroppo ci sono poteri che non si possono combattere, ma io so da dove vengo e so cosa sta succedendo in quella regione da cui proviene la mia famiglia”, ha detto Đoković quasi dieci anni fa, riferendosi all’indipendenza del Kosovo.

E se ci spostiamo sui campi di calcio? Il Kosovo è stato senza una nazionale e un campionato di calcio riconosciuti da Fifa e Uefa. E che la ferita sia ancora aperta e dolorante lo dimostra la partita del 14 ottobre 2014 tra Serbia e Albania, valida per la qualificazione all’Europeo francese del 2016.
Siamo a Belgrado e, nonostante la partita fosse vietata ai tifosi albanesi, durante il gioco vola in campo un drone con la bandiera della Grande Albania: l’aspirazione di uno Stato unitario che racchiude tutti i territori con presenza albanese.
Tra questi, ovviamente, il Kosovo – oltre a pezzetti di Grecia, Montenegro e Macedonia.

Eppure non si è trattato di un episodio isolato. Nella primavera dello stesso anno, due calciatori serbi della squadra albanese Apolonia Fier hanno deciso di lasciare la squadra, perché non si sentivano più sicuri.
Il 22 marzo 2014, infatti, durante una partita di campionato, il portiere serbo Vilson Cakovic placca un invasore di campo che aveva interrotto il gioco. Il tifoso sventolava una bandiera con scritto: “nessuna Albania senza Kosovo”. Alla ripresa del gioco Cakovic venne fischiato dai suoi stessi tifosi e, pochi giorni dopo, comunicò l’intenzione di lasciare la squadra. Con lui anche il compagno Djordje Djordjevic.

Kosovo terra di nessuno e, allo stesso tempo, terra di tutti.
Eppure, fino a quel momento, la nazionale di calcio kosovara aveva già fatto capolino in partite amichevoli non ufficiali. Il 5 marzo 2014, ad esempio, la Fifa, per la prima volta, non accontenta le pretese serbe e consente alla rappresentativa di disputare una partita amichevole contro Haiti.
Tale decisione, però, deve rispettare un compromesso: non devono venire esposti simboli, bandiere e non devono essere intonati inni. Una provocazione che la federazione kosovara, evidentemente, non accoglie di buon grado. Così decide di non disputare l’incontro nella capitale Pristina, ma a Mitrovica, zona a maggioranza serba e simbolo della resistenza serba nella neonata nazione kosovara.

Finalmente Kosovo!

Durante le Olimpiadi di Rio, l’atleta kosovara Majlinda Kelmendi si aggiudica la prima medaglia con i colori della sua nazione. Si tratta di un oro nel judo, a scapito dell’italiana Odette Giuffrida. È un risultato storico, visto che il Kosovo è stato ammesso nel Cio solamente due anni prima e i giochi di Rio sono stati i primi ai quali ha potuto partecipare come nazione indipendente. 
Dopo 20 anni di guerre, scontri, ripicche e tumulti, pare però che il Kosovo possa finalmente avere una selezione nazionale anche per gli incontri ufficiali. E dopo il Cio anche Fifa e Uefa si sono mosse nella stessa direzione.

Lunedì 5 settembre 2016 la nazionale kosovara di calcio ha disputato la prima partita ufficiale della sua storia contro la Finlandia. La partita è finita 1 a 1. Dopo il vantaggio finlandese, ha risposto Valon Berisha, su calcio di rigore.
La nazionale di calcio, tuttavia, resta ancora un cantiere aperto. Il regolamento Fifa, infatti, non prevede la possibilità per un calciatore di cambiare divisa, qualora abbia già disputato partite ufficiali con altre nazionali. Come fare, dunque, con una nazione appena riconosciuta?
Si tratta di un vuoto regolamentare. Probabilmente la Fifa valuterà caso per caso.
Così è successo il 5 settembre: fino a poche ore del calcio di inizio il c.t. Albert Bunjaku non aveva ancora una lista completa di atleti convocabili. Il pass per nove di questi è arrivato all’ultimo momento, tra questi il portiere e capitano Samir Ujcani (20 presenze con l’Albania) e l’autore del gol, Valon Berisha.

È stata una partita piena di significato, invece per Përparim Hetemaj, centrocampista kosovaro del Chievo Verona, ma naturalizzato finlandese (40 presenze con la Finlandia).
La famiglia di Hetemaj, infatti, è emigrata in Finlandia proprio in seguito ai conflitti serbo-kosovari degli anni ‘90. Per questo motivo il calciatore ha chiesto alla federazione di non disputare l’incontro, forse in attesa di sapere quale maglia potrà vestire in furo, ma soprattutto perché non voleva giocare contro “la sua gente”.

Come lui molti altri calciatori, nel corso della loro carriera hanno dovuto indossare altri colori. Tra le migliaia di famiglie apolidi, infatti, ci sono anche quelle giocatori divenuti importanti per diversi club europei.
Xherdan Shaqiri, ad esempio, ex ala dell’Inter e del Bayern di Monaco o Valon Behrami, centrocampista ex Lazio, entrambi attualmente calciatori della nazionale Svizzera. Ma anche il difensore Lorik Cana, ex Lazio, che ha vestito i colori dell’Albania. Infine Adnan Januzaj, giovane ala del Sunderland, ma in prestito dal Manchester United, in forza al Belgio.
Sono stati gli stessi Shaqiri e Behrami, insieme ad altri firmatari, a inviare, nel 2014, una lettera alla Fifa dove si chiedeva di ammettere la nazionale kosovara all’interno della federazione.

Un passaggio di maglie che resta poco praticabile nei fatti.
È difficile che calciatori con una carriera già affermata possano cambiare casacca, e che, allo stesso tempo, la Fifa conceda tale possibilità. Ma sognare non costa nulla e gli appassionati di calcio kosovari ci sperano. E chissà che, con questi nomi, il Kosovo non possa addirittura qualificarsi ai Mondiali del 2018, come accadde per la Bosnia nel 2014, andando a giocare proprio in Russia, una di quelle nazioni che ancora si ostina a non riconoscerne lo status. 

Andrea Dotti (ha collaborato Andrea Sacchetti)

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