Il mio pellegrinaggio per salutare Don Gallo

Genova è, per un torinese, innanzi tutto treno. Asti-Alessandria, la provincia un tempo ricca, cascinali e campi ordinati, pendolari che salgono e scendono, improvvise verdi colline, gridolini di bambini che vanno a vedere i pesci (non è fantascienza, esistono ancora maestre dedite e coraggiose), gallerie, galleria lunga, Genova Piazza Principe.

Il sole è quello delle grandi occasioni, splendida mattinata tutta nel cielo terso e nell’aria fredda che un vento teso e secco ti sbatte in faccia non appena metti il primo piede giù dal predellino; altro che salsedine a gonfiare i polmoni: c’è immediato bisogno del maglioncino-non-si-sa-mai nello zaino.

Via Andrea Doria è un serpentone dinamico di traffico che fluisce rapido; percorrendolo, a sinistra il mare, a destra la città arroccata sulle colline, comprendi il perché di “Superba”: pare quasi di essere un figurante sulla scena di un antico anfiteatro, un palcoscenico con maestose quinte blu dalle quali – nei secoli che furono – le più impensabili meraviglie giunsero a stupire la Repubblica dagli angoli più remoti del globo.

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La chiesa è bassa e anonima, quasi tozza nelle sue linee dritte e senza fronzoli, schiacciata fra un antico edificio della zona portuale e un autoconcessionario, di fronte ad una stazione dei carabinieri. Mi infilo in punta di piedi, sedendomi su di una seggiola sulla destra. È minuscola, otto banchetti in tutto nella navata centrale, venti metri al massimo separano l’entrata dall’altare. La teca refrigerata, ammantata di bandiere, è dove la navata centrale incontra il transetto, la testa rivolta verso l’altare; la filodiffusione passa inni sacri che i presenti accompagnano con un lieve brusio.

Temevo di dover fronteggiare una folla chiassosa, nella quale la gente del quartiere si sarebbe mischiata con malcelato fastidio ai curiosi ed agli stranieri, ma mi sbagliavo: mentre fuori si attardano a parlare in quattro o don gallocinque, dentro non si saranno più di venti, trenta persone; ma questo numero, apparentemente ridotto, non deve trarre in inganno. Mi rendo conto di essere di fronte ad una processione incessante, entri, rendi omaggio ed esci immediatamente, interminabile e silenziosa. Arrivano alla spicciolata, casco sotto il braccio e zainetto sulle spalle, un attimo di raccoglimento e subito fuori, ritornano alla loro giornata, al lavoro. Non sono – non ho visto – gli ultimi, le prostitute, i tossici, i diseredati: ci saranno anche loro, ma quelli che ho potuto osservare sono pensionati, uomini e donne di mezza età, jeans e scarpe comode, impiegati per la maggior parte e qualche manovale; pochi giovani, adesivi del Genoa sulle coppolette e tatuaggi sugli avambracci scuriti dal primo sole.

L’atmosfera è triste ma composta. C’è chi, come la signora grassa con la giacca di jeans, passa accanto al feretro sorridendo, mentre accarezza il legno lucido, intenerito da quell’ennesima, ultima provocazione dell’uomo; i più recitano una rapida preghiera nella penombra, a labbra socchiuse; un vecchio si ferma tre metri dopo l’entrata, non avanza di un passo e scoppia in un pianto silenzioso. Qualche veloce saluto, una stretta di mano e pacche sulle spalle, si tira su con il naso per frenare le lacrime.

Nel volgere di tre quarti d’ora sono decine le persone che sono passate da San Benedetto: i parrocchiani, ché non si deve dimenticare che prima di tutto è un dolore vicino, di quanti hanno conosciuto l’umanità prima della militanza, che va bene la lotta, ma è con le prediche e l’esempio, il conforto quotidiano, che si fonda e si mantiene coeso il gregge, l’aggregato di case, la comunità. Il colpo è stato potente, sferrato a pochi giorni da uno sfrego terribile al cuore pulsante della città. Non lo nascondono, glielo leggi nei volti e lo ascolti dalla loro voce: non ci voleva, non ora non così.

Andarsene è un’emozione forte e profonda, ha il gusto del rimpianto per aver avuto l’occasione non colta di ascoltare il ruggito del leone, e il sapore salato della salsedine che qui, alle spalle dei moli, aspro ammanta la fine della storia di un uomo, più degnamente di qualsiasi incenso pregiato.

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Tornando sui miei passi, andando verso Ponente imbocco via del Prè, dalla quale si dipartono le mille vene e venuzze del centro storico. Fra due ali di kebab e gastronomie sudamericane cammino nell’ombra, che nemmeno a mezzogiorno i raggi del sole riescono a farsi strada dentro l’eterna qasba, muri scrostati di vecchie case vibranti di slogan e colori, di secolare tradizione di fiera libertà. Man mano che ci avvicina a piazza De Ferrari compaiono qua e là botteghe, pescherie, artigiani del vimini e del pane, macellerie halal e vecchie sartine laboriose. Ed eccolo il salotto della città, palazzo Ducale e il teatro Carlo Felice, la fontana delle scolorite fotografie seppia dove i camalli, chiamati a raccolta da un facinoroso futuro presidente della Repubblica, immersero il panno grigioverde per fargli ritrovare la lucentezza e lo splendore degli altri due colori della bandiera.

L’osteria è schietta e accogliente, tovagliette di carta e clientela assortita seduta gomito a gomito, che scalda l’aria ricca di profumi che arrivano dalla cucina di sotto con un concerto di voci dall’accento cadenzato e musicale. Stock accomodato gustoso, caponata di melanzane appetitosa nel cui intingolo immergere bocconcini di pane bianco e friabile; mentre il vino diminuisce nella caraffa si fa il punto sulle vite, le speranze e le delusioni, i progetti e “il problema è stato e rimane che il PD non è un partito, ma comunque non c’è nulla di meglio”.

Andando verso Brignole, i palazzi hanno profili conosciuti, le vie sono luoghi che mi sembra di avere già percorso un’infinità di volte, nonostante sia la prima. I racconti si fondono negli alberi e nella toponomastica bizantina, le pagine scritte fitte diventano marciapiedi e serrande; è lo stesso sole di sempre sopra via Invrea, e comprendi che la prospettiva è falsata dalle auto parcheggiate, dalle file ordinate di motorini, dai dehors. Lo slargo è più piccolo di quanto immaginassi, il traffico viaggia spedito, che se ti fermi troppo in mezzo alla strada con il naso all’insù corri il rischio di farti mandare dalla segretaria in motorino che sta tornando al lavoro. La suola Ge_Brignole_4appoggia proprio su quell’asfalto, così pulito, sgombro, immemore, oscenamente permeabile. Uno sguardo all’intorno, vecchi contro la balaustra del bar che chiacchierano, uomini in giacca e cravatta che tornano in ufficio, un’anziana seduta sulla panchina  che osserva l’aiuola, l’edicolante che tira su la sua serranda dipinta di verde, nessuno sa o forse tutti sanno, ma poi cosa cambia.

Risaliamo i pochi metri che ci ricongiungono al viale stretto e in discesa che costeggia la massicciata della ferrovia, quell’ultimo proseguimento del sentiero dei nidi di ragno, set involontario di uno fra i tanti episodi della mia, della tua, della nostra e della comune, contorta trama. Brignole, il treno sferraglia, il palcoscenico di Genova si allontana.

Stefano Mongilardi

@twitTagli

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