Non avevo – e non ho – un’idea chiara e univoca di quello che sta accadendo a Kiev: poiché non posso essere sul posto, né posso riporre la mia “fiducia” (il termine meriterebbe una spiegazione, ma non ne farei una questione capitale) sull’onestà intellettuale di nessuno fra i presenti in loco, devo necessariamente rifarmi a quanto detto dai media.
Da una parte c’è questo “giovane giornalista” russo ed indipendente (del quale non ho letto, per questioni di tempo la biografia che presumo essere linkata); dall’altra, le agenzie di stampa russe, riprese in chiave più o meno critica dai media occidentali. Il primo mi è perfettamente sconosciuto, mentre le altre, pur non essendo esattamente oggetto di lettura quotidiana, non mi sono del tutto estranee. Il rapporto tra i due termini è leggermente a favore del primo perché, per quanto conosca il secondo solo superficialmente, non sono disposto a prestare orecchio alla grancassa di Putin, correndo anche solo lontanamente il rischio di fare un torto alla realtà oggettiva degli eventi.
Preconcetto? Sì. Ma è Putin, non credo si offenderà; quindi, nessuno lo faccia a nome suo.
Ciò che mi pare innegabile è il cambiamento nelle dinamiche del conflitto di piazza. Credo che la svolta siano state Occupy Wall Street, il presidio a Zuccotti Park, e poi il suo omologo europeo a Puerta del Sol a Madrid. Ma anche Tahir al Cairo, Syntagma ad Atene e Gezi ad Istanbul.
Un cambiamento avvenuto a partire del 2011, che ha portato i movimenti a fermarsi stabilmente in un luogo (una piazza o un parco, per lo più), dando vita ad una situazione di stallo prolungato con le forze dell’ordine (emblematica la vicenda di Kiev, dove esistono delle vere e proprie “fortificazioni”).
Le scene che arrivano da alcuni chilometri quadrati nel centro perfetto di queste città (ci metto dentro anche Amburgo di queste settimane) ricordano da vicino un campo di battaglia: nel mentre la vita procede, del tutto immutata, solamente ad un centinaio di metri in linea d’aria più in là. Cosa significa? Non lo so, ma mi pare un aspetto degno di nota.
In ogni caso vi convergono, assieme, studenti, operai, disoccupati, manager; vecchi, giovani; neri, rossi, rossobruni. Il milieu di queste “sollevazioni” (il termine Rivoluzione non mi convince troppo, le implicazioni della rivoluzione classica sono lunghe e perigliose: non impelaghiamoci) è estremamente variegato ma pressoché costante nelle sue particolari espressioni nazionali. Come del resto sono pressoché gli stessi alcuni dei caratteri di questo milieu:
- la tendenziale (e ci sarebbe da discutere) apolicità sbandierata come un valore (oltre che come garanzia di rappresentare interessi “neutri”: e anche qui ci sarebbe da discutere);
- il supporto concreto della cittadinanza;
- l’assenza di un “piano” al di là delle singole rivendicazioni.
Son passati poco più di due mesi da quando i forconi hanno, de facto, bloccato una delle più grandi città del Nord Italia. Sarebbe il caso di iniziare a discutere seriamente della questione, pur rendendomi perfettamente conto che l’Italicum, con la sua desinenza latina, fa godere molto di più.
Stefano Mongilardi
@twitTagli
PS: consiglio infine questa tremenda fotogallery. Roba da Pulitzer.