Dachau è un paesone immerso in un angolo boscoso della Baviera, a una manciata di chilometri da Monaco. Ci sono capitato nel 1992, un tempo in cui la Germania iniziava a riprendere confidenza con l’unità nazionale e il Muro di Berlino era una cicatrice ancora molto ben presente.
A Dachau nulla potrebbe destare la curiosità di un turista, sarebbe un tranquillo quanto anonimo villaggio bavarese se non fosse per un’ingombrante presenza: il KZ, ovvero il primo campo di concentramento aperto dal Reich, inaugurato nel 1936, modello per tutti i campi che verranno dopo, anche per il ben più famoso Auschwitz. Qui i nazisti hanno “studiato” da aguzzini, hanno sperimentato e messo a punto tecniche che sarebbero diventate drammaticamente celebri.
Il primo impatto con il paesino è brusco, ruvido, violento. Un antipasto di quel che verrà dopo. L’incerto vagabondare cui ci siamo costretti da alcune ore per cercare il KZ ci spinge a chiedere a una signora affacciata alla finestra di una villetta. Nel nostro stentato tedesco cerchiamo di farci capire: “Dame, KZ bitte“. Nemmeno il tempo di finire la frase e la donna ci guarda torva ritirandosi all’interno e sbattendoci letteralmente in faccia le imposte. Restiamo allibiti e spiazzati, poi decidiamo di porgere l’altra guancia, giusto in tempo per vederci assestare un secondo schiaffone. Chiediamo ad un passante che subito finge di non capire e poi ci dice di non essere del luogo. Invece ha compreso benissimo ed è del posto.
L’ultima risorsa si chiama Polizei, almeno i tutori della legge dovranno darci un’indicazione. Entriamo decisi nel piccolo posto di polizia del paese, di fronte a noi un lungo corridoio illuminato a neon e tanti uffici dai quali proviene il rumore di un lavoro indefesso e frenetico. Un energumeno in divisa ci guarda con aria interrogativa. Cartina alla mano facciamo capire dove vogliamo andare. L’espressione che gli leggiamo sul volto sembra quella dei suoi compaesani interpellati poco prima, poi con asettica cortesia il poliziotto ci spiega la strada. Non siamo a Roma e non stiamo chiedendo la strada per il Colosseo o San Pietro. Basta quella sigla, KZ, per toccare le corde più profonde dell’orgoglio teutonico.
Il campo, ormai associato al nome del paese, è un’eredità scomoda, fastidiosa, pesante. Qui le colpe dei padri ricadono sui figli anche se i figli non ne possono nulla, anche se hanno condannato quei padri.
Seguendo il percorso indicato dal poliziotto lo troviamo. La strada che percorriamo è costeggiata da un muro alto circa due metri, sormontato dal filo spinato. Sembra non finire mai e solo le torrette squadrate che si incontrano a intervalli regolari spezzano quella lugubre monotonia. L’ingresso principale del campo – oggi resta in piedi soltanto il settore destinato ai prigionieri mentre l’area dedicata al personale, alla scuola delle SS e al comando è stata in parte smantellata – avviene attraverso un basso fabbricato. In mezzo ad esso si apre una porta carraia, profonda, porticata e sbarrata da un cancello. Sul cancello troneggia, seppure più piccola che ad Auschwitz, la scritta “Arbeit macht frei – il lavoro rende liberi”. È la prima stazione di una macabra via crucis che si gioca tutta sull’ambiguità.
Dachau nasce come campo di lavoro per oppositori politici e detenuti comuni, poi con la messa a punto del disegno criminale di Hitler e Himmler diventa un campo di sterminio in cui moriranno ebrei tedeschi, zingari, Testimoni di Geova. Giunti davanti a quel cancello, dopo un viaggio spesso al limite dell’umano, iniziava il calvario. Varcata la soglia si apre un immenso piazzale di cui colpisce il silenzio abbacinante, nonostante le comitive di turisti che si avvicendano. Basta uno sforzo di immaginazione e su quel piazzale ti sembra di veder figure macilente muoversi sotto pigiami a righe ormai larghi, soldati in uniforme grigioverde, di sentire i latrati dei cani lupo che si mischiano a quelli della gutturale lingua tedesca. Delle vecchie baracche che ospitavano i prigionieri oggi ne restano in piedi soltanto due. Solo i basamenti riempiti di ghiaia e delimitati da un cordolo servono a rendere l’idea di quello che doveva essere il campo. Nelle baracche superstiti restano i letti a castello che occupavano tutto lo spazio in altezza. Dentro ognuna di quelle baracche, stipati come bestie, dormivano centinaia di persone spesso schiacciate a due o tre in un unico giaciglio. Senza materassi o pagliericci.
Credi di aver visto il peggio e invece non hai visto nulla. Al fondo del piazzale, nascosto da un boschetto e da aiuole perfettamente curate si erge un basso fabbricato in mattoni rossi, illuminato da ampie finestre. Superata la prima sala si accede ad uno stretto locale, su una delle pareti si apre una porta e sopra di essa compare la scritta “Brausebad – docce”. Eliminare i nemici della razza era un fatto scontato, tanto da giocare su un’ironia agghiacciante. Non serve essere storiografi per rendersi conto che quello stanzone cieco non era una doccia ma la camera a gas, che però a Dachau non entrò mai in funzione. Quando venne completata era ormai troppo tardi. Fino al 1944 i detenuti condannati a morte, i disabili o gli inabili al lavoro venivano caricati di notte su un autobus o sui camion e trasportati nel castello di Hartheim dove era in funzione una camera a gas. Nel castello arrivavano anche le “cavie umane”, detenuti sui quali il medico nazista Claus Schiling effettuava esperimenti e ricerche sulla tubercolosi, sulla malaria e sulle conseguenze del volo ad alta quota.
La via crucis dell’orrore termina nell’ultima stanza del basso fabbricato, quasi completamente occupata da quattro forni crematori. È l’immagine più angosciante, quella che ti resta per sempre conficcata in testa, indelebile. Ho visto Dachau quando avevo sei anni e nella mia memoria rimarranno sempre le istantanee di quel posto. Quando ci ripenso mi ripeto quanto diceva Primo Levi, che l’orrore dei lager lo aveva provato sulla sua pelle. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.
Alessandro Porro
@alexxporro