Leinì è una cittadina della provincia di Torino di oltre 15.500 abitanti. È chiamata la Porta del Canavese.
La terra di Leinì o Leyni fu dei Provana, i signori indiscussi del posto dal XIV al XVIII secolo. Era una stirpe di conti, militari, consiglieri di casa Savoia, funzionari d’alto rango.
Facevano parte dell’oligarchia delle cinque famiglie feudali più antiche del Piemonte, insieme ai Luserna, ai Piossasco, ai San Martino, ai Valperga.
Chi diede lustro maggiore al nome dei Provana di Leinì fu Andrea, nato intorno al 1520 nel castello del borgo e la cui vita eccezionale segnò la storia del Ducato di Savoia.
Gli anni cinquecenteschi del Piemonte grazie a Provana brillarono scintillanti di onore e gloria.
Subito il suo destino fu chiaro quando fu affidato a casa Savoia come paggio del rampollo Ludovico, principe bambino ed erede della dinastia. Da lì in avanti, tutto il cammino del ragazzo nel mondo dei mortali sarebbe stato caratterizzato da un legame indissolubile con la corona del piccolo ma agguerrito Ducato stretto tra le Alpi.
Quando il piccolo Ludovico morì adolescente a corte di Carlo V di Spagna, il paggio passò allora a servizio del secondogenito del sovrano, il nuovo futuro Duca.
Ecco, Andrea Provana e Emanuele Filiberto di Savoia, due nomi che rimasero sempre legati da amicizia, da fedeltà, da servigi durati una vita intera.
Andrea fu sempre a fianco del suo signore, diventandone solido braccio destro, fino alla morte del sovrano sabaudo, stroncato da cirrosi epatica dopo essersi bevuto un mare intero di vino rosso.
Le avventure dei due iniziarono nel 1536. Le armate francesi di Francesco I avevano occupato gran parte dei territori del ducato, Torino fu abbandonata dalla corte, Vercelli diventò nuova capitale di quel fazzoletto di terra che era rimasto indipendente.
Da Vercelli Emanuele Filiberto, prossimo a prendere il posto del papà Carlo II detto Il Buono, riparò a Nizza.
Il mare. Andrea ed Emanuele rimasero folgorati dal Mediterraneo; loro, discendenti di stirpi da terraferma, quasi montanari, si appassionarono alle vele, ai remi, a vite marinare.
Provana di Leinì uscì per mare. Prese posto sulle galee spagnole. Le navi di Andrea Doria, Signore di Genova e alleato di Carlo V di Spagna e dunque anche dei piemontesi, addestrarono l’aspirante marinaio alla navigazione, alle manovre della flotta, alla guerra sull’acqua.
Fu in questo periodo che il conte si formò come condottiero navale; più tardi avrebbe dato prova di sé in una grande battaglia mediterranea.
Prima però tornò coi piedi sulla terra, per accompagnare l’amico Emanuele nella campagna delle Fiandre incendiate da eserciti e assedi. I nemici, sempre loro, i francesi di Enrico II con ambizioni di dominio europeo che stringevano il cappio attorno alla città di Bapaume, nella regione dell’Artois tra il Belgio e lo stretto di Calais.
Il giovane Andrea si offrì per una missione top secret da super agente segreto, da 007 sabaudo del cinquecento.
Si camuffò da soldato francese. Passò le linee nemiche ingannando i soldati.
“Bonsoir Camarades. Au revoir Camarades”.
Riuscì ad entrare nella città assediata e s’incontrò subito con il governatore. Nella sala di guerra, riferì agli assediati il piano.
“Amici, mentre il mio Signore Emanuele Filiberto di Savoia attaccherà il nemico dall’esterno io comanderò la sortita dalla città contro le posizioni dei francesi.
Agiremo coordinati, attaccheremo negli stessi istanti per dar forza micidiale all’azione. I felloni si troveranno presto circondati e schiacciati dal duplice assalto e la vittoria sarà nostra”.
Difatti la vittoria fu sabauda e al Re di Francia, che non s’aspettava di certo una tale amara sorpresa, non gli rimase che ordinare la svelta ritirata generale a gambe levate.
“Artois, adieu”.
Che anni turbolenti per le terre piemontesi. Su Chambery e Torino svettava la bandiera blu con i gigli d’oro di Francia. Il duca Emanuele Filiberto di Savoia (foto), soprannominato Testa ‘d Fer – Testa di ferro, duellava senza sosta contro gli avversari di sempre e il suo generale più fidato, Andrea Provana conduceva la guerra negli scenari di Vercelli, del Canavese, in Val d’Aosta, a Nizza, nel Cuneese, a Villafranca, ora Villefranche-sur-Mer, dove potenziò il porto per renderlo la base navale più importante per il Ducato.
Venne inaugurato anche un cantiere navale da cui scesero in acqua le prime galee battenti bandiera ducale: il vessillo De gueules à la croix d’argent, la croce di San Battista bianca su sfondo rosso.
Nasceva la marina militare piemontese, l’antica antenata di quella italiana.
Capitano generale della nuova arma, il grado più alto della neonata forza di mare, fu insignito Andrea Provana di Leinì.
Scoppiò la pace con i francesi, nell’Anno Domini 1559, con la firma del Trattato di Cateau-Cambrésis; la Francia s’impegnava a togliere le grinfie dall’Italia e riconosceva il predominio della corona di Spagna nella politica della Penisola.
In Piazza San Carlo a Torino, sul monumento del Caval ëd Brons, sotto il destriero di Emanuele Filiberto che ringuaina la spada dopo la vittoria di San Quintino, c’è un bassorilievo che raffigura proprio un momento della Pace di Cateau-Cambrésis.
Finiva una guerra e un’altra tempesta si avvistava ad est. Mamma li turchi, i nuovi nemici erano corsari di Istanbul, dominavano il Mediterraneo, scorrazzavano con la flotta ottomana che era immensa e considerata invincibile per numero di navi e di marinai.
In realtà era da tempo che il braccio di ferro per il dominio del mare tra Oriente e Occidente veniva combattuto.
Egemonia, basi commerciali, influenza, competizioni geopolitiche, superpotenze ingorde: queste le ragioni dell’inevitabile scontro tra la mezzaluna, più forte che mai, e i potenti dell’ovest.
Cipro, l’isola oggetto del desiderio di Venezia e del Sultano, fu il casus belli. L’espansionismo ottomano di Solimano il Magnifico prima, e poi di suo figlio il Sultano Selim II preoccupava Venezia, il Papa, Filippo II di Spagna.
Era in gioco la supremazia dell’occidente, si scese in guerra.
Rullo di tamburi, benedizioni, cannoni caricati.
La crociata del mare aveva inizio.
PICCOLO BREVIARIO DI COSE E PROTAGONISTI DELLA GRANDE BATTAGLIA DI LEPANTO.
- Lega Santa: Alleanza strategica tra le varie potenze della cristianità contro il nemico comune.
Per una volta si misero da parte divergenze e odi, i turchi erano una minaccia troppo grande per tutti.
Sotto l’egida di Papa V strinsero il patto di guerra la Repubblica di Venezia, la Spagna, la Repubblica di Genova, l’Ordine dei Cavalieri di Malta, il Granducato di Toscana, i Ducati di Urbino, Lucca, Mantova, Ferrara e naturalmente il nostro di Savoia.
- Selim II: figlio di Solimano il Magnifico e di Roxelana – concubina di origine ucraina, la preferita dell’harem.
Diventò l’unico erede del grande impero quando suo padre convocò il primogenito Mustafà nella sua tenda e convinto che stesse tramando contro di lui, lo fece strangolare di fronte ai suoi occhi.
Salito al trono, si dimostrò sin da subito non adatto a tali responsabilità. Debole, alcolizzato fradicio, canzonato come Sarhoş l’Ubriacone, non assomigliava in nulla al padre.
La sua omosessualità gli alienò le simpatie del clero dell’aristocrazia; attorno a lui l’harem e i cortigiani cospiravano manovrandolo come un grasso e dissoluto burattino.
- Comandanti della flotta cristiana: comandante generale fu designato ammiraglio degli ammiragli Don Giovanni d’Austria, figlio bastardo di Carlo V e fratellastro di Filippo II, già esperto cacciatore di pirati.
Altri illustrissimi nomi a bordo delle galee erano Francesco Maria della Rovere di Urbino, i generali ammiragli veneziani Sebastiano Venier (vecchio ma instancabile massacratore di turchi) e Agostino Barbarigo, Marcantonio Colonna come capitano del Papa, l’ammiraglio di Genova Gianandrea Doria, il comandante spagnolo Álvaro de Bazán marchese di Santa Cruz e Andrea Provana di Leinì.
- Comandanti della flotta turca: Müezzinzade Alì Pascià fu il comandante supremo degli ottomani. La sua testa finì su una picca.
L’ala destra era tenuta da Mehmet Shoraq, viceré d’Egitto. Anche lui cadde a Lepanto.
Uluç Alì, abilissimo navigatore di origini calabresi detto Occhialì, rapito dai corsari, diventò corsaro di fede musulmana egli stesso.
A Murad Dragut, figlio del terribile Dragut, toccò la responsabilità delle retrovie.
- Le galee: Imbarcazione usata per oltre tremila anni. Veniva chiamata anche galera; c’è infatti un chiaro nesso tra il concetto di carcere e questa nave a remi che era anche una prigione galleggiante.
I rematori erano indicati con il nome di galeotti.
Giù, nel caldo infernale della sottocoperta, a sudare come bestie da soma in un fetore nauseabondo, tanti erano i condannati alla pena del remo, i lavori forzati di utilità bellica.
I turni erano di quattro ore massacranti a lavorar di spalle e bicipiti, cadenzati dai sordi tamburi dei capi-voga e dalle frustate degli aguzzini, i secondini che davano il giusto ritmo sulle schiene dei poveracci.
I galeotti mangiavano dopo il tramonto, al buio, per non vedere di che cosa fosse composto l’orrido rancio.
500 uomini potevano essere imbarcati sulle galee più grandi, tra rematori, ufficiali, soldati, marinai, cannonieri.
- La truppa crociata: i volontari della pugna portavano il nome di venuturieri, non ricevevano la paga ma partecipavano alla spartizione del bottino qualora ci fosse.
Si arruolavano per fede crociata contro gli infedeli o per solo gusto dell’avventura e delle botte. I cristiani misero in acqua oltre 36.000 combattenti, la maggior parte di essi fanti della corona di Spagna, del pontefice, della repubblica veneziana.
Lo scontro sarebbe stato durissimo, ne erano ben consci allo stato maggiore della sacra alleanza e ben 30.000 galeotti furono per l’occasione “sferrati”: erano quei rematori a cui vennero distribuite lame e corazze per farli partecipare alla sarabanda secondo necessità.
Menzioni storiche speciali vanno ai tercios del Tercio viejo de Cerdeña, marines cinquecenteschi armati con archibugi all’ultima moda, ai cecchini veneziani dall’occhio lungo e la mira infallibile, ai marinai genovesi con le armature speciali che potevano essere velocemente sfilate se si cadeva in mare, ai reggimenti Schiavoni istriani e dalmati veterani nella disciplina dell’arrembaggio e nel tagliar gole su navi altrui.
- La truppa della mezzaluna: i ghazi erano gli incursori, avventurieri della jihad.
Gli azap, mercenari armati di picche, spade, archi e frecce, venivano arruolati in tutte le province dell’impero ottomano.
I barbareschi erano considerati ottimi soldati armati di moschetti.
Ma la parte del leone dello schieramento del sultano la facevano i famosi e famigerati giannizzeri (foto),l’elite militare dell’impero, la feroce casta guerriera della Sublime Porta.
Sulle galee di Selim l’Ubriacone, i giannizzeri di marina, suddivisi in squadre autonome da tre uomini ciascuna (un archibugiere professionista, un arrembatore navigato, un abile arciere) costituivano l’osso più duro e fanatico da battere.
- Lo schieramento della Lega: 204 galee e 6 galeazze (navi più grandi, con più artiglieria a bordo). Tre corni: quello di centro, quello di sinistra e corno destro.
Il corno di centro era sotto il comando supremo di Don Giovanni d’Austria, ammiraglissimo di tutta la flotta.
Andrea Provana di Leinì lo affiancava a bordo della Capitana di Savoia, con equipaggio sabaudo.
A destra vi erano le squadre agli ordini di quel taccagno genovese di Gianandrea Doria. Su questo lato erano schierate, tra le tante di Venezia e di Genova, anche due altre galee del Ducato di Savoia.
Si trattava della Piemontese e della Margarita. La responsabilità del corno sinistro fu invece del provveditore generale della Repubblica di Venezia Agostino Barbarigo.
- Lo schieramento di Alì Pascià: 180 galee, una trentina di galeotte (barche più piccole), un numero imprecisato di brigantini corsari che formavano le forze irregolari della marina ottomana.
L’ammiraglio supremo Alì Pascià dirigeva come un direttore d’orchestra bellica la sinfonia di battaglia a bordo dell’ammiraglia Sultana.
Sull’albero maestro della nave da guerra di Alì, sventolava una gigantesca bandiera verde su cui 28.900 volte era stato ricamato in oro il nome di Allah.
LA BATTAGLIA
Domenica, 7 ottobre 1571, mattina, golfo di Corinto, al largo della città di Lepanto, città greca sotto il dominio turco.
La flotta cristiana si schierò in ordine serrato, compatto; una testuggine titanica di legno, remi e cannoni.
Don Giovanni attuò il suo piano. Ordinò alle sei galeazze, fortezze galleggianti con micidiali bocche da fuoco, di avanzare verso il nemico, e di lasciarle apparentemente isolate.
Una ghiotta esca.
Fuoco! I primi ad aprire le danze furono gli artiglieri delle galeazze che fecero ruggire i cannoni all’avvicinarsi dei turchi. Quelle navi più grosse avevano una potenza di fuoco devastante; erano le super armi di Venezia.
Le cannonate picchiarono forte lo schieramento di legno ottomano, rompendolo. Gli alberi cadevano, i remi spezzati volavano in mille schegge, gli scafi si bucavano, i marinai maciullati.
Alì Pascià capì che quei colossi avrebbero richiesto troppe perdite per essere espugnate con abbordaggi e ordinò ai suoi capitani di aggirare l’ostacolo.
Non tergiversò, anzi, e optò immediatamente per tentar il tutto per tutto, subito.
Tutta la flotta all’attacco frontale!
Quello sforzo di remi controcorrente, di arcieri dalle braccia tese e archibugieri affumicati aveva un unico grande ambizioso obbiettivo: afferrare l’ammiraglia crociata Real, ovvero il cervello di tutto l’esercito di mare della cristianità ed assaltarla.
Uccidere Don Giovanni, il capo supremo della flotta della Lega, avrebbe rappresentato un tal colpo da poter segnare sin da subito le sorti della sfida.
Un boccone davvero succulento e le navi di Alì circondarono l’ammiraglia, pronte a massacrarne gli occupanti.
Frattanto, nell’ala sinistra si accendevano altri scontri sanguinosi. Fu un duello senza esclusione di colpi quello tra il veneziano Barbarigo e il comandante ottomano Scirocco, che stava manovrando per accerchiare da quel lato le navi della Lega. Barbarigo fu ferito alla testa, a morte.
Scirocco, esausto, cadde prigioniero e decapitato sul posto.
Tornando al centro, il supremo ammiraglio Alì Pascià, si mise a caccia con la sua nave Sultana. La nave Real, la sua preda. Voleva il duello.
Ammiraglia contro ammiraglia, comandante contro comandante.
Come se fossero stati due nobili cavalieri nemici durante una battaglia terrestre.
Il vento ora soffiava a favore delle vele turche. Allah è grande, Allah è con il Sultano.
Le galee di Pascià venivano avanti. I tamburi di guerra turchi erano assordanti, i sinistri flauti soffiati dai giannizzeri di marina annunciavano l’imminente carneficina.
Le galee di Don Giovanni rimanevano ferme. Gli uomini erano avvolti da un assoluto silenzio, ascoltavano i suoni di morte aspettando la mischia di fumo e sciabole.
Il nemico fu a tiro! Giù tutte le bandiere cristiane! Su il sacro vessillo benedetto da Papa Pio V, lo Stendardo di Lepanto con Cristo in Croce tra i Santi Apostoli Pietro e Paolo.
Da ogni ponte di ogni nave si alzò una croce e i sacerdoti dei reggimenti distribuivano le assoluzioni.
Il vento cambiò, ora soffiava a favore delle vele cristiane. Dio è grande, Dio è con il Papa. Non c’era tempo da perdere! Don Giovanni repentino attaccò la Sultana, la tana dell’avversario.
L’arrembaggio fu cruentissimo, inutile dirlo.
Per primi furono mandati i sardi del Tercio, gente dura e cattiva. Conquistarono la prua.
A poppa rimanevano i musulmani, scimitarre alla mano, senza alcuna intenzione a gettare la spugna.
Al centro della nave fu il ring, il cuore della lotta e forse della battaglia intera. La violenza bestiale di alabarde su teste, di schioppettate a bruciapelo, di balestre puntate negli occhi, di lame affamate di gole, noi posteri possiamo solo immaginarla.
Lo scontro fu vinto da Don Giovanni con una gamba squarciata. Quando anche i legni toscani abbordarono la nave ammiraglia turca, i difensori della mezzaluna cedettero definitivamente, morendo.
Anche il loro comandate, Alì Pascià, cadde armi in pugno. Gli mozzarono la testa che fece poi truce spettacolo dall’albero maestro della Sultana, da predatrice divenuta preda.
La visione della testa decapitata del loro ammiraglio gettò i turchi nel panico.
Prima di guardare al tragico spettacolo dell’epilogo, approfondiamo l’avventura di Andrea Provana e della ciurma sabauda. La galea Piemonte se la passò brutta. Faceva parte del corno destro sotto il comando del genovese Gianandrea Doria. Figura storica ambigua, quel Gianandrea.
Comandava l’ala destra. Quando gli si pararono a prua oltre 90 navi nemiche scelse il disimpegno e si sganciò con la maggior parte delle sue galere dalla battaglia, retrocedendo in mare aperto.
Le teorie degli storici sono divise in tre diversi pareri principali. Il Doria forse attuò una strategia che lì per lì pareva essere fuga codarda di fronte al nemico, in realtà una ponderata, cinica e razionale tattica per evitare il disastro delle sue forze inferiori rispetto all’avversario. Qualcuno invece ebbe persino il sospetto di alto tradimento; il genovese avrebbe preso accordi con il nemico per svignarsela sul più bello e lasciare gli alleati in seria difficoltà.
O più probabilmente, l’ammiraglio si comportò da pavido e da taccagno visto che non era solo un alto ufficiale di marina ma anche un armatore e i legni sotto il suo comando erano di sua proprietà, da lui costruiti, da lui armati, da lui pagati.
La leggenda di Genova la tirchia forse ha un fondo di verità.
Ma lasciamo il giudizio ad altri e preoccupiamoci invece del brutto destino della galera Piemonte, anch’essa facente parte del corno sinistro e che si trovò completamente isolata. Fu stretta da tre navi nemiche, tre squali pronti ad azzannarla. E la morsero con un arrembaggio su più lati, impossibile da ricacciare.
L’equipaggio, ufficiali e rematori inclusi, rifiutarono la resa e combatterono fino al fine in una calca immane di pugnali e archibugi.
Duecento eran salpati, 188 erano ammazzati. Solo una dozzina della Piemonte riuscì a salvare la pelle, seppur feriti male.
Andrea Provana ebbe anche lui la sua occasione di dimostrare chi era. La Capitana fu stretta da due galee ottomane. Pioggia di frecce e dardi, raffiche ravvicinate di moschetti: lo scambio di carezze affilate tra gli equipaggi cristiani e musulmani fu senza pietà.
Andrea cadde all’indietro.
L’ammiraglio è morto!
No, marinai! L’ammiraglio Provana è vivo, ha la testa aperta da una palla di fucile ma è vivo!
Un giannizzero gli aveva sparato nel cranio da distanza ravvicinata. La testa archibugiata, ferita, ma non spaccata definitivamente. Che testa dura, il Provana.
Salvato grazie all’elmetto morione (simile a quello delle guardie svizzere), cadde sul ponte della nave, accecato e completamente rintronato dalla botta per oltre mezz’ora, mentre intorno a lui si scatenava l’ira d’inferno.
Quando si rialzò, ancora scombussolato dalla schioppettata, tornò subito a dar manforte ai suoi, in prima fila a buttar giù a sciabolate turchi, albanesi, algerini, egiziani, bulgari, tripolitani; insomma tutta la carne da cannone dell’impero di Selim l’Ubriacone.
L’arrivo lesto della riserva del Marchese di Santa Cruz schiacciò i reggimenti ottomani che ancora si gettavano all’assalto intorno all’ammiraglia Real.
Provana e i suoi, piemontesi e nizzardi, erano salvi, erano vittoriosi.
La battaglia per il Mediterraneo era terminata, l’onda dell’est si era infranta contro lo scoglio dell’ovest. Intorno alla Capitana del Ducato di Savoia, un’apocalisse di scafi in fiamme, di naufraghi stremati, di acqua tinta di rosso, si mostrava agli occhi dei sopravvissuti.
Non era più un mare, era un cimitero galleggiante.
E questa fu la pagina più gloriosa dell’avventurosa vita di Andrea Provana stratega, condottiero e miglior soldato del Duca Emanuele Filiberto. L’ottocento risorgimentale aveva il mito di Cavour, il cinquecento sabaudo ebbe Andrea, l’Ammiraglio di Leinì.
Federico Mosso
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