Bussano alla porta. “La solita Velia, sbadata, stupida serva”, borbotta tra sé e sé Angelo di ritorno dal giro a funghi. Quell’anno, nonostante le bombe che avevano distrutto metà Rieti, la campagna verso il Terminillo era stata miracolosamente salvata dalla distruzione. “Non sei neanche più bona ad aprirte la porta?! Ma che te pago a fa’?”, avvampando di rabbia si avvia rapido alla porta.
“Inspection, Italienisch!“, questa la risposta che gli si sbraita, non appena la spalanca. Il più alto e grosso, col muso da pitbull e gli occhi troppo vicini: sotto la bustina di panno di lana campeggia, impolverata, l’aquila e il paltò decorato con mostrine da semplice obergefreiter, degno specchio delle capacità intellettuali rese alla Heer.
Dieci centimetri più sotto, due occhi blu, sotto un elmetto verde marcio, spuntano, più iracondi di quanto l’età potesse permettergli, ma decisamente acuti e accompagnati ai modi: gli avevano garantito una carriera decisamente rapida. La voce era la sua.
“Ci faccia entrare, herr Aquilano. Appiamo l’ortine di confizcare ogni oggetto o proffigione excedente, per il nostro und voztro ezercito”, prosegue asciutto il luogotenente.
“Sor Aquilano”, come lo chiamavano a Staffoli, il piccolo paese premontano, incuneato tra Umbria e Abruzzo – ma ancora gloriosamente in territorio laziale – non fece in tempo a scansare la prepotenza dei due. In paese, Angelo Aquilano era rispettato, e a dirla tutta anche un po’ temuto. In fondo, era l’ultimo dei possidenti terrieri e di bestiame a cui il fascismo non aveva ancora portato via tutto. Dava ancora da lavorare e mangiare a metà della gente, e si vociferava che tenesse una dispensa ben fornita di pane, salumi, pomodori secchi e cacciagione proprio dietro la casa dove abitava con la moglie Jolanda e i suoi sei figli.
A cercare di aiutare il papà, gli si parò a fianco, con lo sguardo torvo, il piccolo Achille, che il luogotenente tedesco guardò con un sogghigno. Achille aveva solo quattro anni, e la mamma Jolanda stava bollendo le fasciature per il piccolo Checco, nato qualche mese prima.
“Ma non c’è niente nella nostra casa, che volete? Siamo una famiglia in guerra, e siamo tutti affamati”, asserì seria e forbita Jolanda, accendendo i suoi splendidi occhi sottobosco. Si vedeva che era abituata a farsi obbedire. D’altronde, era la maestra di Staffoli da oltre vent’anni e tutti la rispettavano, per il suo ruolo e, forse, anche in conseguenza al suo matrimonio.
Angelo, la prese per un braccio perentoriamente, senza farle male, per suggerirle di tacere. La guardò complice, mentre i due magnakartoffe, come li chiamavano nel reatino, si addentravano in casa.
“Seguitemi”, disse Angelo. “Ve mostrerò che non c’è nulla da prendere”. “Lo fedremo”, asserì il glaciale luogotenente. La casa era tiepida, al mattino, grazie alle braci che tutta la notte avevano mantenuto una temperatura costante anche in quel rigido gennaio del ’44. La mobilia era sobria, ma senza un filo di polvere, così com’erano linde le lenzuola dei letti appena rifatti e la tovaglia della cucina, con qualche fetta di pane nero raffermo e le quattro scodelle di latte.
I due tedeschi controllarono la casa da cima a fondo. Nulla. “Antiamo in kantina, herr Aquilano”. Angelo li condusse docile, sotto gli occhi atterriti di Jolanda, che però non disse una parola. Arrivati nell’interrato, alla fioca luce del lume a petrolio, si aprì cigolante una sgangherata porta di legno, un po’ marcio.
Dentro, totale abbandono: una bara capovolta, e consunta, fungeva da tavolona; lì avrebbero dovuto esserci le scorte di tutti. Ovunque, ragnatele, polvere, erbacce che crescevano tra una crepa e l’altra del pavimento. Due fiaschi impagliati, uno vuoto, l’altro con un fondo di vino ormai divenuto aceto, troneggiavano sullo pseudo-tavolo. “Avete visto?”, disse Angelo ai due, che si guardarono con occhi schifati, sibilando, per la seconda volta ma in tono ancor più sgradevole, “Italienisch”.
Batterono i tacchi e se ne andarono. Grazie a Dio, Angelo, aveva tanti amici in paese che gli avevano dato la soffiata delle ispezioni naziste. Al fondo della sgangherata cantina, infatti, c’era seminascosta una porticina dietro una madia di legnaccio, che avrebbe rivelato infatti quello che i poco arguti germanici non avevano intuito. La dispensa ben fornita di pane, salumi, pomodori secchi e cacciagione.
Valeria Pace