Io credo nella democrazia parlamentare. L’idea è semplice: siamo troppi per poterci esprimere tutti su tutto. Non si riuscirebbe a decidere nulla in tempo utile.
Per questo si scelgono alcuni rappresentanti che decidono a votazione per tutti.
Come sceglierli? Chiunque riesca a raccogliere il numero di voti sufficiente può candidarsi. E la gente, per scegliere tra i vari candidati, ha due parametri:
– il programma proposto dalla lista con cui il candidato si propone
– una valutazione sulla persona: sulla sua storia, sui suoi valori, sul suo CV e sulla sua affidabilità personale.
Una volta eletto, il parlamentare può votare liberamente. Questo vuol dire che se, su una certa questione, ha un’ idea diversa da quella del suo partito è libero di votare diversamente. Perché deve scegliere l’opzione più giusta dopo aver maturato un convincimento sul tema.
Questo meccanismo richiede tempo. Dibattiti interni ai partiti per scegliere la linea condivisa. E, nonostante questo lavoro, succede che il parlamentare decida di votare in dissenso rispetto alla linea del suo partito.
Perché a suo avviso il partito ha preso un granchio colossale e sta sostenendo un’idea sbagliata e dannosa per il paese.
Perché gli sono stati offerti danari o cariche in altri partiti per cambiare idea.
Perché è un tema su cui si è speso coi suoi elettori e, per rappresentarne la volontà, non può e non deve arretrare.
Hanno cominciato a delegittimare la libertà individuale dei parlamentari togliendoci il potere di indicare il nome del candidato più rappresentativo delle nostre idee tra quelli in lista. Ci hanno detto che questo meccanismo si prestava a clientele. Che è anche vero ma non è scontato.
Così oggi alcuni parlamentari sono inseriti in liste ed è il partito a scegliere chi è eletto e chi no; non solo il numero di voti. Altri hanno un collegio rispetto a cui sono l’unico candidato proposto dal partito, e chi vota quel partito sa che sta scegliendo anche quella persona (ma non può proporre altri nomi tra i candidati del partito).
Poi ci hanno detto che i parlamentari erano troppi, che andavano ridotti. Certo, meno teste da mettere d’accordo vuol dire decisioni più rapide. Ma vuol dire anche che ciascun parlamentare rappresenta un maggior numero di elettori. Quindi più teste da mettere d’accordo per avere voti (e continuare ad averli all’elezione successiva).
Inevitabile che il parlamentare in questione avrà la tentazione di annacquare le proprie idee più divisive o radicali per non scontentare nessuno. E inevitabile che il voto di ciascun elettore pesi meno sul totale.
Abbiamo due leader che si accordano per raggiungere direttamente obiettivi di governo, a votare leggi: non per proporle al Parlamento.
Ora abbiamo due leader (notare bene: non due partiti, due leader, nome e cognome) che firmano un accordo privato autenticato da notaio impegnandosi a raggiungere numerosi obiettivi di governo.
Non a proporli al parlamento. A raggiungerli.
Cioè a votare certe leggi: questi leader, infatti, guidano partiti che vantano un numero di parlamentari eletti sufficiente a ottenere la maggioranza parlamentare.
Questi leader si impegnano dunque, nell’ordine:
- ad approvare un programma senza discuterne nuovamente in parlamento, e quindi senza confrontarsi nuovamente sull’opportunità di queste misure con i partiti di minoranza;
- a tenere la linea all’interno dei propri partiti, e, in caso di dissensi tra correnti, a gestire il problema con un organo, il Comitato di Conciliazione, che è esterno sia al Parlamento che al partito.
In pratica se i membri del partito non sono in accordo tra loro sull’attuazione del programma, anziché votare a maggioranza al loro interno essi saranno costretti a devolvere al Comitato la risoluzione del conflitto. Ovviamente il comitato è formato da poche persone e, non essendo un organo democratico, non ha vincoli di funzionamento che assicurino un suo operare democratico.
Nel caso del M5S peraltro il parlamentare che ritenga una stupidaggine, ad esempio, l’abolizione dell’obbligo vaccinale, se la linea scelta dal Comitato fosse contraria ai suoi principi sarebbe soggetto anche ad una sanzione economica per voto difforme, a questo punto in barba al controllo della piattaforma online, temo.
Il Comitato di Conciliazione non è un organo democratico, e non ha vincoli di funzionamento (e nemmeno altri, a ben vedere).
Questo contratto non è compatibile con la democrazia parlamentare.
A prescindere dal fatto che i contraenti siano Di Maio e Salvini, che si proponga l’abolizione di tutti i campi rom (anche quelli in regola) e che manchino le coperture per molte proposte.
Questo contratto è un progetto eversivo.
Non vincolante, d’accordo. Mascherato da trasparenza e partecipazione, perché, come ribadito all’inizio, i Leader credono nella democrazia ed è solo per esaltarne il funzionamento che creano un organo ulteriore in grado di svuotare di senso l’attività parlamentare.
È un progetto eversivo e chi, come me, crede ancora alla democrazia parlamentare, a questo modello di governo così difficile da praticare, così fragile e corruttibile, oggi, chi è come me, ha paura.
Anzi, non è più neanche paura. È dolore. È amara consapevolezza dell’inutilità della storia, pettine in mano a calvi.
È, al massimo, speranza di veder fallire un contratto privo di efficacia vincolante.
Che però, quand’anche restasse carta straccia, può essere un ulteriore passo verso il tramonto della democrazia parlamentare, la peggior forma di governo ma, come diceva Churchill, anche la migliore che abbiamo trovato.
Irene Moccia