A pochi giorni dal voto, c’è ancora un po’ di incertezza su come funziona la legge elettorale con la quale ci apprestiamo a votare. Ma per fare un po’ di chiarezza dobbiamo partire dalle cose semplici.
C’è chi, ancora oggi, mi chiede “Ma tu chi voti?“, inteso non come partito ma proprio come singolo candidato: sembra assurdo, visto che la polemica su questo punto è stata enorme, ma succede. Se volete, è la dimostrazione che spesso i giornalisti danno troppe cose per scontate. Quindi chiariamolo, una volta per tutte: con la legge elettorale attualmente vigente, alle elezioni politiche (e cioè quelle che eleggono i rappresentanti dei due rami del Parlamento, Camera e Senato) non si esprime voto di preferenza.
Ciascun elettore può solo e semplicemente scegliere il partito al quale affidare la sua preferenza, barrando il relativo simbolo sulla scheda elettorale. Una preferenza alla Camera per tutti i cittadini aventi diritto di voto e una al Senato per i cittadini che abbiano compiuto il 25esimo anno di età (infatti, chi non ha compiuto 25 anni non ha diritto di voto per il Senato, come da Costituzione, articolo 58).
I rappresentati dei singoli partiti vengono eletti in base alle liste precedentemente stilate dai singoli partiti, con metodi assolutamente discrezionali (alcuni hanno fatto le primarie come PD, SEL e M5S; altri no). È ovvio che l’ordine in cui i candidati sono inseriti in lista è fondamentale: più si è in alto, maggiori sono le probabilità di essere eletti. Infatti, in base al risultato elettorale, ciascun partito potrà eleggere un numero maggiore o minore di rappresentanti.
I parlamentari sono 945: 630 deputati e 315 senatori. Come forse saprete, la legge elettorale assegna in maniera diversa la maggioranza nelle due camere (nonostante, a differenza di quasi tutti i paesi occidentali, abbiano sostanzialmente gli stessi compiti). Questo è l’aspetto più complicato; ma è un aspetto fondamentale, perché spiega come mai i candidati si stiano concentrando su alcune regioni più che su altre.
Partiamo dalla Camera dei Deputati, poiché prevede un meccanismo più semplice. Qui il premio di maggioranza è su base nazionale. La coalizione che, nel Paese, raggiungerà la maggioranza relativa (e cioè anche un solo voto in più delle altre coalizioni) si aggiudicherà il 55% dei seggi parlamentari. Per certi aspetti è una legge di buon senso, perché permette effettivamente una solida maggioranza; per altri, è un tantino “pericoloso” assegnare una tale maggioranza ad una coalizione che in realtà potrebbe essere minoritaria nel Paese. Esempio: un partito di maggioranza relativa con il 30% si aggiudica il 51% dei seggi, ed è così in grado di “imporre” la sua volontà al 70% del Paese che non lo ha votato. Problemi di filosofia del diritto costituzionale, gravi ma intricati e spinosi: non perdiamoci.
Arriviamo alla vera “porcata” (per stessa definizione del suo relatore) di questa legge, ovvero il sistema con cui si assegna la maggioranza al Senato. Qui è necessario fare un po’ di ripasso. Perché Calderoli ammise di aver fatto una porcata? Perché sapeva che, promuovendo questa legge in chiusura di legislatura del 2006 (col centrosinistra in netto vantaggio sul centrodestra), si faceva da una parte un dispetto a Prodi, ma dall’altra si consegnava il Paese all’instabilità di fatto.
Le ragioni sono semplici, per chi abbia dimestichezza con l’andamento delle elezioni italiane: sappiamo infatti che alcune regioni sono storicamente di destra, altre storicamente di sinistra. Per la precisione, le tre regioni italiane più popolose sono anche quelle storicamente più “di destra”, soprattutto da quando la Lega è alleata al PDL: Lombardia, Veneto e Sicilia. Se spostiamo a livello locale il premio di maggioranza, possiamo fare in modo che – vincendo in queste tre regioni – si possa pareggiare o quasi il numero dei senatori, pure perdendo in tutte le altre regioni del Paese.
Ed è stata proprio questo il criterio con cui è stata scritta la Legge Calderoli: essa assegna il premio di maggioranza per il Senato alla coalizione che abbia la maggioranza relativa in ogni singola regione. Poiché, giustamente, alcune regioni popolose hanno molti più rappresentati di altre, si capisce il diverso peso per il Senato che ha una vittoria in una delle “magnifiche tre” piuttosto che nelle altre diciassette, indipendentemente dal risultato nazionale.
Grazie all’aiuto di una tabella approntata dal nostro Alessandro Sabatino, vediamo quanti senatori elegge ogni singola regione (e quanti se ne accaparra la coalizione vincente).
Vincendo in Sicilia, Lombardia e Veneto ci si aggiudicano 55 seggi del Senato: una bella cifra, considerando che la maggioranza è di 158 voti. Questo vi fa capire perché si parla di queste tre regioni come di regioni “chiave”. Alla coalizione favorita (in questo caso, quella composta da PD, SEL e PSI) basterà perdere in quelle tre regioni – pur vincendo in tutte le altre – per avere una maggioranza molto risicata al Senato. Scenario simile, dunque, a quello vissuto dal Governo Prodi.
Domenico Cerabona
@DomeCerabona