Estendere anche ai nuovi assunti le tutele dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, applicando dunque una condizione di miglior favore rispetto a quanto previsto dal Jobs Act. È quanto deciso dalla Acea S.p.A., ex municipalizzata di Roma, gruppo industriale che si occupa di gestione e sviluppo di reti e servizi idrici, energetici e ambientali.
L’ipotesi di accordo sindacale è stata siglata il 7.2.2018 con i sindacati confederati di categoria (Filctem-Cgil, Flaei-Cisl, Uiltec-Uil): ora sarà votata dagli iscritti alle organizzazioni sindacali e, in caso di approvazione, diventerà vincolante per tutte le società del gruppo.
Si tratta di un’intesa molto articolata, che verte anche sui temi dello smartworking e del welfare aziendale, nell’ambito della quale l’azienda ha ottenuto dai sindacati diverse importanti concessioni; fra l’altro, le future assunzioni avverranno con un sottoinquadramento di due livelli per i primi due anni e di uno per il terzo anno. Inoltre ci sarà la possibilità di ricorrere ad assunzioni-tampone per i periodi di maggior criticità, con inquadramenti contrattuali particolarmente flessibili, evitando però il ricorso ad appalti esterni.
E poi, al punto 22, l’innovativo impegno a neutralizzare gli effetti del Jobs Act: “al fine di promuovere occupazione stabile e quale tutela di maggior favore rispetto a quella vigente, le Parti stabiliscono, in via convenzionale, che nei confronti di tutto il personale delle Società del Gruppo Acea firmatarie della presente Intesa, attualmente in servizio con contratto di lavoro a tempo indeterminato nonché nei confronti del personale che verrà assunto, saranno garantite le tutele previste dall’articolo 18 della Legge 300/70, come modificato dalla Legge 92/2012.”
al fine di promuovere occupazione stabile e quale tutela di maggior favore rispetto a quella vigente (…) saranno garantite le tutele previste dall’articolo 18 della Legge 300/70″.
Si tratta di una condizione di miglior favore rispetto alla tutela minima prevista dalla legge, dunque perfettamente legittima. È così che funziona il diritto del lavoro, in Italia: la legge pone alcune tutele minime, paletti invalicabili che possono però essere derogati in meglio dagli accordi sindacali e dagli usi aziendali.
Sindacati e associazioni dei datori di lavoro possono stipulare intese migliorative rispetto alle condizioni di legge; e lo stesso possono fare le rappresentanze sindacali aziendali e i datori di lavoro, con riferimento alle singole aziende.
Nulla di scandaloso, dunque: un’azienda e le rappresentanze sindacali operative al suo interno hanno stipulato un accordo, vantaggioso per entrambi, nell’ambito del quale si sono fatte concessioni reciproche. Tra cui quella, innovativa nel panorama sindacale italiano, di neutralizzare gli effetti del Jobs Act con riferimento ai licenziamenti individuali.
Eppure Confindustria ha reagito con toni molto accesi. Il vicepresidente Maurizio Stirpe ha dichiarato che non è esclusa la possibilità di deferire il caso ACEA al collegio dei probiviri, definendo il comportamento dell’azienda nelle trattative sindacali “sleale verso Confindustria“, di cui la partecipata è membro.
Stirpe, con riferimento all’accordo, ha perfino parlato di “ingerenza indebita della politica”, alludendo alle possibili influenze del comune guidato dalla sindaca Virginia Raggi – nel programma del M5S vi è infatti il ritorno all’articolo 18.
Le regole del mercato del lavoro, nel modello previsto dal nostro ordinamento, dovrebbero emergere soprattutto nell’ambito di una contrattazione tra le associazioni rappresentative dei datori di lavoro e i sindacati, rappresentativi dei lavoratori. Eppure è proprio la principale organizzazione dei datori di lavoro a risultare critica di fronte a una trattativa sindacale aziendale di sostanza, in grado di elaborare soluzioni innovative.
Da tempo i sindacati non vengono riconosciuti come attori decisivi nello sviluppo delle norme giuslavoristiche.
Le ragioni sono molteplici. Su alcune può valer la pena di riflettere.
Da un lato l’economia globale richiederebbe relazioni sindacali transnazionali, con grandi organizzazioni in grado di contrastare il dumping con coordinamenti unitari. Spesso il sindacato si limita a cercare di strappare il miglior risultato possibile con riferimento al singolo comparto produttivo su base locale, o alla singola azienda. La minaccia della delocalizzazione depotenzia fortemente le leve a disposizione dei sindacati, che tendono spesso alla stipula di accordi al ribasso per evitare tagli al personale.
D’altro canto i lavoratori più giovani sono fortemente sottorappresentati.
La precarietà del lavoro giovanile in Italia fa sì che difficilmente il lavoratore under35 si rivolga ai sindacati attivi in azienda. I giovani, spesso, hanno la prospettiva di restare in azienda magari soltanto per qualche mese: non hanno alcun interesse a pagare contributi sindacali o a prendere contatti con i rappresentanti.
Non è al giovane precario che il sindacalista dovrà fare appello per essere eletto rappresentante sindacale. Nelle trattative con il datore di lavoro dovrà fare l’interesse dei propri iscritti, che sono per lo più lavoratori a tempo indeterminato – portatori di interessi diversi, talora persino divergenti rispetto a quelli di chi vorrebbe entrare a far parte dell’azienda in pianta stabile.
Molti accordi sindacali, dunque, tendono a preservare le tutele previste per i lavoratori già in forze e rischiano di occuparsi solo incidentalmente di apprendisti, lavoratori a tempo determinato, stagisti e collaboratori di vario genere.
Eppure un Paese con i nostri problemi di occupazione avrebbe molto bisogno di relazioni sindacali di sostanza, che mirino davvero a cercare compromessi intelligenti a tutela dei lavoratori – di tutti i lavoratori, precari compresi.
Sarà interessante vedere se il precedente di ACEA sia destinato a fare scuola, o almeno ad aprire un dibattito sul ruolo del sindacato nell’epoca del Jobs Act.
Irene Moccia