TEMA: Il Dono
TITOLO: La disperata ricerca di comunione: il sacrificio come dimensione del dono
Per sfatare il luogo comune dei filosofi troppo concentrati sull’Empireo (e poco calati in una realtà fatta di pietanze più complicate di un uovo al tegamino) basterebbe dare un’occhiata a Theodore Adorno: ogni prodotto dell’uomo si riferisce all’uomo, e del resto homo sum: humani nihil a me alienum puto (Terenzio). Le attività umane sono rimaste le stesse fin dalla notte dei tempi: non i lavori, le opere, le tecnologie; ma i moti di spirito, i gesti, i desideri. Diceva bene Luciano De Crescenzo impersonandosi in Aristotele: “I Greci avevano già inventato tutto; quello che sarebbe venuto dopo sarebbero state semplici prolunghe“.
E perciò l’atto di donare, testimoniato perfino nella prima notte di vita del Cristo (Adorazione dei Magi, Parmigianino) è una concretizzazione di sentimento universale e necessaria, fuori dallo spazio e dal tempo (sì, è Kant): è un atto squisitamente, intrinsecamente umano. Che la modernità ha banalizzato.
L’acume di Adorno, disgustato dagli “articoli regalo” e dallo scontrino assieme al pacchetto (“Così se non ti va bene lo puoi cambiare“), è quanto di più quotidiano, eppure raffinato, ci possa capitare di conoscere. Meno apprezzabile lo sconcerto dinnanzi la perdita dell’ingenuità, la purezza del dono (“Perfino i bambini!“, si dispera il tedesco): del resto è lo stesso Virgilio (citato da Bianchi) che ci racconta quanto la pratica del dono infingardo non sia una invenzione dell’evo moderno o contemporaneo.
Il dono, svilito dalla frenesia del possesso consumistico, riacquista dignità spirituale (e dunque peso e significato) nella sua componente di sacrificio: di denaro, certo, ma anche di tempo, di sforzo, di viaggio (ancora i Magi) di syn-patheia tra donante e destinatario. C’è un tentativo di comunione di spirito dietro quell’oggetto, un tentativo di sintonizzare aspettativa e generosità; addirittura di desiderio (e dunque problema) e soddisfazione (e dunque soluzione).
Ampliare il discorso fino al concetto di “Dono della Vita” – come forse pretenderebbero i testi suggeriti, in particolare quello di Grazia Deledda – ci costringerebbe ad ingarbugliarsi in una giungla di aspetti metaforici ed ulteriormente morali del concetto di dono. Non vi è né tempo né spazio (e probabilmente, nemmeno conoscenza: la Vita nel suo insieme, anzi, per qualcuno è un argomento definitivamente indicibile, intrattabile, indescrivibile. Avventurarci nella metafora del dono sarebbe – paradossalmente – limitante).
Meglio concentrarci in questo atto umano, quotidiano, nella sua umanità e quotidianità.
Passibile di essere banalizzato o viceversa di divenire momento di scambio e comunione fraterna, il dono gratifica entrambi i soggetti coinvolti: è la gioia di quello che poc’anzi chiamavamo sacrificio a descriverne la totale irrazionalità (una irrazionalità quasi religiosa: difatti il sacrificio del Cristo è “dono” della propria vita; ed i sacrifici laici – da Socrate agli eroi di guerra – sono a loro volta “doni” per beneficiare allievi, compagni, amici) e la forza dirompente di un gesto.
Comunicare attraverso un oggetto è un ulteriore, profondo, forse disperato tentativo di rappresentare la spiritualità nella materialità. Un tentativo forse goffo, forse imbranato, forse puerile. È sdolcinato l’innamorato che porta i fiori, è orribilmente formale il diplomatico che porta al suo ospite un qualche manufatto, è banale l’amico che si presenta a cena con una bottiglia di vino.
Ma sono tutti gesti che è dissonante descrivere con sprezzo: perché tutti quanti, in fondo, riconosciamo il valore del gesto e l’umiltà del nostro sentimento. Il dono è un modo di presentarci, di offrirci all’altro, di conquistare, di convincere, di rapportarsi.
È un modo, l’ennesimo, che abbiamo trovato per essere, in definitiva, meno soli.
Mauro Loewenthal
@twitTagli