
ESAMI DI STATO CONCLUSIVI
Claudio Magris, dalla prefazione de L’infinito viaggiare, Mondadori, Milano, 2005)
Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forme, salvandola così dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigono sacrifici di sangue. Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte. Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera,ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte. In Verde acqua Marisa Madieri, ripercorrendo la storia dell’esodo degli italiani da Fiume dopo la seconda guerra mondiale, nel momento della riscossa slava che li costringe ad andarsene, scopre le origini in parte anche slave della sua famiglia in quel momento vessata dagli slavi in quanto italiana, scopre cioè di appartenere anche a quel mondo da cui si sentiva minacciata, che è, almeno parzialmente, pure suo. Quando ero bambino e andavo a passeggiare sul Carso, a Trieste, la frontiera che vedevo, vicinissima, era invalicabile – almeno sino alla rottura fra Tito e Stalin e alla normalizzazione dei rapporti fra Italia e Jugoslavia – perchè era la Cortina di Ferro, che divideva il mondo in due. Dietro quella frontiera c’erano insieme l’ignoto e il noto. L’ignoto, perchè là incominciava l’inaccessibile, sconosciuto, minaccioso impero di Stalin, il mondo dell’Est, così spesso ignorato, temuto e disprezzato. Il noto, perchè quelle terre, annesse alla Jugoslavia alla fine della guerra, avevano fatto parte dell’Italia; ci ero stato più volte, erano un elemento della mia esistenza. Una stessa realtà era insieme misteriosa e familiare; quando ci sono tornato per la prima volta, è stato contemporaneamente un viaggio nel noto e nell’ignoto. Ogni viaggio implica, più o meno, una consimile esperienza: qualcuno o qualcosa che sembrava vicino e ben conosciuto si rivela straniero e indecifrabile, oppure un individuo, un paesaggio, una cultura che ritenevamo diversi e alieni si mostrano affini e parenti. Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte o in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo.
Claudio Magris è nato a Trieste nel 1939. Saggista, studioso della cultura mitteleuropea e della letteratura del “mito asburgico”, è anche autore di testi narrativi e teatrali.
1. Comprensione del testo Dopo un’attenta lettura, riassumi il contenuto del testo.
2. Analisi del testo 2.1 Soffermati sugli aspetti formali (lingua, lessico, ecc.) del testo. 2.2 Soffermati sull’idea di frontiera espressa nel testo. 2.3 Soffermati sull’idea di viaggio espressa nel testo. 2.4 Spiega l’espressione: “Si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo”. 2.5 Esponi le tue osservazioni in un commento personale di sufficiente ampiezza. 3. Interpretazione complessiva ed approfondimenti Proponi una interpretazione complessiva del testo proposto, facendo riferimento ad altri testi di Magris e/o ad altri autori del Novecento. Puoi fare riferimento anche a tue esperienze personali.
–
TIPOLOGIA B – REDAZIONE DI UN “SAGGIO BREVE” O DI UN “ARTICOLO DI GIORNALE”
DOCUMENTI:
«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.»
La mattina del 15 luglio 1927 ero rimasto a casa, non ero andato come al solito all’Istituto di Chimica nella Wahringerstrasse. Nel Caffè di Ober-Sankt-Veit mi misi a leggere i giornali del mattino. Sento ancora l’indignazione che mi travolse quando presi in mano la “Reichpost” e lessi un titolo a caratteri cubitali: “Una giusta sentenza”. Nel Bungenland c’era stata una sparatoria, alcuni operai erano rimasti uccisi. Il tribunale aveva assolto gli assassini. L’organo di stampa del partito al governo dichiarava, o meglio strombazzava, che con quella assoluzione era stata emessa una “giusta sentenza”. Più che l’assoluzione in quanto tale, fu proprio questo oltraggio a ogni sentimento di giustizia che esasperò enormemente gli operai viennesi. Da tutte le zone della città i lavoratori sfilarono, in cortei compatti, fino al Palazzo di Giustizia, che già per il nome incarnava ai loro occhi l’ingiustizia in sè. La reazione fu assolutamente spontanea, me ne accorsi pià che mai dai miei sentimenti. Inforcai la bicicletta, volai in città e mi unii a uno di questi cortei. Gli operai di Vienna, che normalmente erano disciplinati, avevano fiducia nei loro capi del partito socialdemocratico e si dichiaravano soddisfatti del modo esemplare in cui essi amministravano il Comune di Vienna, agirono in quel giorno senza consultare i loro capi. Quando appiccarono il fuoco al Palazzo di Giustizia, il borgomastro Seitz, su un automezzo dei pompieri, cercò di tagliar loro la strada alzano la mano destra. Fu un gesto assolutamente inefficace: il Palazzo di Giustizia andò in fiamme. La polizia ebbe l’ordine di sparare, i morti furono novanta. Sono passati 53 anni, eppure sento ancora nelle ossa la febbre di quel giorno. E’ la cosa più vicina a una rivoluzione che io abbia mai vissuto sulla mia pelle. […] Quel giorno tremendo, di luce abbagliante, lasciò in me la vera immagine della massa, la massa che riempie il nostro secolo. […] QUel giorno era stato dominato dal tremendo fragore delle urla, urla di sdegno. Erano urla micidiali, alle urla rispondevano gli spari, e le urla diventavano più forti ogni volta che le persone colpite crollavano al suolo. […] Non molto tempo dopo, le urla si trasferirono nelle vicinanze della Hagenberggasse. A meno di un quarto d’ora di strada dalla mia camera, a Hutteldorf, dall’altra parte della valle, si trovava il campo sportivo del Rapid, sul quale si giocavano le partite di calcio. Nei giorni di festa vi accorreva una gran folla, che non si lasciava sfuggire una sola partita di quella celebre squadra. Io non ci avevo mai badato gran che; il calcio non mi interessava. Ma una delle domeniche dopo il 15 luglio, era un giorno altrettanto afoso, mentre stavo aspettando visite e tenevo aperta la finestra, sentii all’improvviso, le grida della massa. Pensai che fossero urla di sdegno; l’esperienza di quel giorno terribile era ancora a tal punto radicata in me che per un attimo rimasi sgomento e cercai con lo sguardo il fuoco da cui quell’esperienza era stata illuminata. Ma il fuoco non c’era, sotto il sole brillava la cupola dorata della chiesa dello Steinhof. Tornai in me e mi misi a riflettere: quelle urla dovevano venire dal campo sportivo […] Le urla di trionfo erano satate causate da un goal, e venivano dalla parte dei vincitori. Si sentì anche, e suonò ben diverso, un grido di delusione. Dalla mia finestra non potevo vedere nulla, me l’impedivano alberi e case, la distanza era troppa, ma sentivo la massa, essa sola, come se tutto si svolgesse a pochi passi da me. Non potevo sapere da quale parte venissero le grida. Non sapevo quali erano le squadre in campo, i loro nomi non li avevo notati e neanche cercai di appuntarli. Evitai perfino di leggere la cronaca sportiva sul giornale e, nella settimana che seguì, non mi lasciai coinvolgere in discorso sull’argomento. Ma durante i sei anni che trascorsi in quella stanza, non persi occasione di ascoltare quei suoni. Vedevo la folla affluire laggiù, alla stazione della ferrovia urbana […]. Non mi è facile descrivere la tensione con cui seguivo da lontano la partita invisibile. Non ero parte in causa perchè le parti neanche le conoscevo. Erano due masse, questo era tutto ciò che sapevo, due masse ugualmente eccitabili, che parlavano la medesima lingua.”
Elias CANNETTI, Il frutto del fuoco. Storia di una vita (1921-1931), Adelphi, Milano 2007
Eugenio MONTALE, Sulla spiaggia,
Il problema centrale del capitalismo fondato sulla libera impresa in una democrazia moderna è sempre stato quello di riuscire a bilanciare il ruolo del governo e quello del mercato. Ma, nonostante molta energia intellettuale sia stata spesa nel tentativo di definire il campo di manovra appropriato a ciascuno di essi, l’interazione fra i due rimane una fonte di fragilità fondamentale. In una democrazia il governo (o la banca centrale) non può semplicemente permettere che le persone soffrano un danno collaterale per lasciare che la dura logica del mercato si esprima. […] Dobbiamo anche riconoscere che una buona economia non può essere separata da una buona politica – e questa, forse, è la ragione per cui un tempo la teoria economica era nota come economia politica. L’errore degli economisti è stato credere che, una volta sviluppato un forte telaio di istituzioni all’interno di un Paese, le influenze politiche al suo interno si sarebbero stemperate e il Paese si sarebbe emancipato per sempre da una condizione “in via di sviluppo”. Ma dovremmo ora ammettere che istituzioni quali i regolamentatori hanno influenza soltanto finché la politica è ragionevolmente ben bilanciata.
Raghuram G. RAJAN, Terremoti finanziari, Einaudi, Torino 2012
Tra tutte le scuse che sentiamo accampare per giustificare il mancato tentativo di mettere fine a questa depressione, c’è il ritornello che viene ripetuto costantemente dagli apologeti dell’inazione: “Dobbiamo focalizzarci sul lungo termine e non sul breve”. […] Concentrarsi unicamente sul lungo termine significa ignorare l’enorme sofferenza che sta causando l’attuale depressione, le vite che sta distruggendo irreparabilmente mentre leggete questo libro. I nostri problemi di breve periodo – sempre che una depressione giunta al quinto anno rientri in questa definizione – stanno intaccando anche le prospettive di lungo termine, su diversi canali. […] Il primo è l’effetto corrosivo della disoccupazione di lungo termine: se i lavoratori che hanno perso il posto da tempo si considerano inoccupabili, si determina una riduzione di lungo termine nella forza lavoro del paese e quindi nella sua capacità produttiva. La situazione dei neolaureati costretti ad accettare dei lavori in cui non sono necessarie le loro competenze è abbastanza simile: con il passare del tempo potrebbero ritrovarsi, quantomeno agli occhi dei potenziali datori di lavoro, declassati a lavoratori generici, e il loro stock di competenze andrebbe definitivamente perduto. Il secondo è il calo degli investimenti. Le imprese non spendono grosse somme per accrescere la propria capacità produttiva […]. Ultimo problema, ma non certo per importanza: la (pessima) gestione della crisi economica ha mandato in fumo i programmi finalizzati a garantire il futuro.
Paul KRUGMAN, Fuori da questa crisi, adesso!, Garzanti, Milano 2012
Gli americani sono arrabbiati. Sono arrabbiati con i banchieri che hanno contribuito alla crisi finanziaria, senza pagarne le conseguenze. Sono arrabbiati per l’incapacità del sistema politico che ha incolpato i banchieri, ma non è stato in grado di tenerli sotto controllo. Sono arrabbiati con un sistema economico che arricchisce ulteriormente i ricchi e abbandona i poveri al loro destino. Sono arrabbiati perché l’ideale di un “governo del popolo, dal popolo e per il popolo” sembra sparito dalla faccia della Terra […] Fortunatamente gli Stati Uniti possiedono nel loro DNA i geni per intraprendere una riforma. Diversamente da molti altri Paesi, gli americani condividono una grande fiducia nel potere della concorrenza che […] genera enormi benefici. Per sostenere il sistema abbiamo bisogno di più, e non di meno, concorrenza. A differenza di altri Paesi in cui il populismo è sinonimo di demogogia e di dittature autocratiche, l’America ha una positiva tradizione populista volta a proteggere gli interessi dei più deboli nei confronti del potere opprimente delle grandi imprese. Non è un caso che le leggi antitrust siano state inventate negli Stati Uniti.
Luigi Zingales, Manifesto capitalista. Una rivoluzione contro un’economia corrotta, Rizzoli, Milano 2012
Un libro fin troppo ricco di intelligenza e di provocazioni intellettuali, quello appena uscito di Giorgio Ruffolo col contributo di Stefano Sylos Labini, Il film della crisi. La mutazione del capitalismo (Einaudi, pagg. 128, euro 12), una narrazione ragionata dello stravolgimento economico che ha spintoe sta tenendo il mondo sull’ orlo dell’ abisso. La sceneggiatura, non a caso esplicitamente cinematografica, racconta in gran parte vicende che hanno riempito le cronache di questi ultimi anni, ma come le grandi pellicole ne dà una versione inedita e a volte sorprendente per gli spettatori, alcuni dei quali si sono fatti già una versione diversa dei fatti e faticano ad accettare la stesura escogitata, con spunti di assoluta originalità, almeno in alcuni passaggi, da uno degli ultimi pensatori socialisti del secolo. Per chi, come il sottoscritto, non concorda in tutto e per tutto col riformismo di sinistra del nostro autore farà bene a dar conto delle proprie perplessità, estrapolandole da un assieme, comunque, di assoluto apprezzamento. La tesi centrale del libro è che la crisi in cui sono immersi i Paesi occidentali nascerebbe dalla rottura di un compromesso storico tra capitalismo e democrazia. La fase successiva a questa rottura- cioè quella attuale- può essere definita come l’ Età del Capitalismo Finanziario e costituisce la terza mutazione che il capitalismo ha attraversato dall’ inizio del secolo precedente. La prima fase è un’ Età dei Torbidi, che si è verificata tra l’ inizio del secolo e lo scoppio della seconda guerra mondiale. La seconda fase è costituita dalla cosiddetta Età dell’ Oro: un sistema di intese fra capitalismo e democrazia fondato nell’ immediato secondo dopoguerra su due accordi fondamentali, il Gatt (oggi WtoWord Trade Organization) che riguardava la libera circolazione delle merci, cui faceva da contrappeso il controllo del movimento dei capitali, che assicurava un largo spazio all’ autonomia della politica economica. Il secondo accordo è appunto quello di Bretton Woods, sul controllo dei cambi e le garanzie da movimenti incontrollati dei capitali, grazie all’ aggancio monetario al metallo gialloe automaticamente, di converso, al dollaro. Secondo i due saggisti la terza fase, con la rottura dell’ Età dell’ Oro, si produce con la liberazione del movimento dei capitali nel mondo, «una vera e propria controffensiva capitalistica, attuata dai leader di Usa e Gb all’ inizio degli anni Ottanta che determina un mutamento fondamentale nei rapporti di forza tra capitalismo e democrazia e tra capitale e lavoro». Inzia l’ Età del Capitalismo Finanziario ampiamente descritta nelle sue varie fasi e interventi, dominati dall’ indebitamento pubblico e privato alimentato dall’ illusione di vivere in «un sistema nel quale i debiti non si rimborsano mai». Per i critici la rappresentazione di questa fase del saggio si presterebbe a più di una osservazione. Mi limiterò ad indicare una mancanza che indebolisce alla base il paradigma ruffoliano. Chi sarebbero i soggetti – Capitalismo e Democrazia – che darebbero vitaa questo scontro epocale? Chi concretamente li rappresenta? I grandi gruppi finanziari contrapposti a una fantomatica Democrazia? La realtà cui ci apponiamo appartiene a un’ altra storia, una storia reale, quella che ha visto il Comunismo, il suo sistema economico rigidamente regolato e protetto, la sua dittatura poliziesca, la sua forza militare, il suo appeal ideologico, contrapposti al Capitalismo e al suo sistema, basato sul libero mercato, indebolito a volte da quelle che si chiamarono “the failures of capitalism”, rafforzato, peraltro, in ultima istanza, dalla solidarietà atlantica. Tutto questo resse fino al 1989, la caduta del Muro di Berlino, che comportò, fra l’ altro, la fine degli Stati del comunismo reale e il tramonto del compromesso che reggeva la coesistenza disagevole dei “due mercati”, quello del “socialismo reale”, amministrato dalle burocrazie sovietiche e quello del libero scambio. Ora, se è vera e convincente l’ analisi della dittatura finanziaria nell’ epoca delle traversie che tendono ad allargarsi a tuttii continenti, come non cercarne le radici, anche ideologiche, nel fallimento precedente? In particolare nel crollo dell’ illusione fondante del sistema socialista di regolare l’ offerta, la domanda e il livello dei prezzi attraverso la pianificazione quinquennale totalitaria. Una idea che pervase la pratica e la teoria dei partiti che al socialismo si rifacevano e il cui dissolversi si contaminò nel magma della globalizzazione, attraverso la libera circolazione degli uomini e dei capitali e nella unificazione in tempo reale dei sistemi internazionali attraverso la mondializzazione e l’ informatica.
Mario PIRANI, Il nuovo capitale, La Repubblica, 1 dicembre 2012
.
“Il 28 giugno 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico, e la moglie furono uccisi in un attentato compiuto da studenti bosniaci mentre erano in visita a Sarajevo, capitale della Bosnia. Vienna attribuì la responsabilità dell’attentato al governo serbo e gli inviò un ultimatum al quale seguì, il 28 luglio, la dichiarazione di guerra ed il bombardamento di Belgrado. La Russia proclamò la mobilitazione generale a sostegno dello Stato balcanico; a questo atto rispose la Germania dichiarando guerra contemporaneamente alla Russia (1 Agosto) ed alla Francia (3 agosto).”
Rosario VILLARI, Storia Contemporanea,
“Le elezioni si tennero nell’aprile 1924 e si svolsero all’insegna dell’intimidazione e della violenza nei confronti degli avversari politici e di un ritorno di fiamma dello squadrismo. Ciò malgrado, i risultati non corrisposero alle speranze di Mussolini: se il “pistone” fascista ebbe la maggioranza dei voti e dei seggi, grazie al meccanismo della legge, nelle regioni dell’Italia settentrionale e nelle grandi città operaie ottenne un numero di suffragi minore di quello delle liste d’opposizione. La denuncia del clima di illegalità e di sopraffazione, in cui le elezioni erano svolte, venne fatta con grande passione e coraggio alla Camera dal deputato socialista Giacomo Matteotti il 30 maggio 1924. Pochi giorni dopo, il 10 giugno, il coraggioso parlamentare era rapito e il 16 agosto la sua salma era ritrovata in una macchia della campagna romana. Parve per un momento che il vuoto dovesse farsi attorno al governo, la cui complicità nell’assassinio ben pochi mettevano in dubbio […] Il 3 gennaio 1925 Mussolini si presentò alla Camera per assumersi tutta la responsabilità del delitto Matteotti e per sfidarla provocatoriamente ad avvalersi della facoltà di mettersi sotto stato d’accusa. La Camera, non accettando il guanto di sfida che le veniva lanciato, segnò praticamente la propria condanna a morte e lo Stato liberale cessò definitivamente di esistere.”
Giuliano PROCACCI, Storia degli italiani, vol. II, Laterza, Bari, 1971
“Passato nella leggenda storica come un apostolo della coesistenza, in realtà Kennedy fu il presidente che, dopo il sostegno dato all’invasione degli esuli castristi a Cuba, pose le premesse per la trasformazione della difficile situazione del Vietnam in una guerra terribile e per un impegno statunitense che doveva in seguito assumere proporzioni gigantesche. […] In politica interna, nonostante i propositi espressi nell’ideologia della Nuova Frontiera, i risultati raggiunti da Kennedy furono piuttosto modesti. Tutta una serie di misure relative all’educazione, alla riforma fiscale, alle cure mediche per gli anziani, alle assicurazioni sociali, all’agricoltura vennero bloccate dall’opposizione repubblicana e conservatrice. […] Kennedy agì invece con risolutezza per assicurare l’integrazione civile dei negri del Sud (nel 1962 si ebbero disordini razziali nel Mississippi); ma la sua impostazione era essenzialmente giuridica-formale, e ignorava il problema sostanziale della discriminazione sociale generale a danno dei negri vigente in tutti gli Stati Uniti. Comunque, al di là dei suoi limiti, Kennedy con la sua ideologia “progressista” aveva suscitato contro di sé una forte opposizione da parte di conservatori, specie del Sud, e forze di Destra. E cadde vittima di queste opposizioni. Decisosi ad un viaggio in vista delle prossime elezioni presidenziali, cui intendeva ripresentarsi, proprio nel Texas, dove le opposizioni erano più tenaci, il 22 novembre 1963 fu ucciso a Dallas in un attentato, senza che mai si accertasse o si volesse accertare chi fosse responsabile della sua organizzazione, che trovò certamente complicità ad altissimi livelli.”
Massimo L. SALVADORI, Storia dell’età contemporanea, Loescher editore, Torino, 1976
“Giovedì 16 marzo 1978. Primo giorno del sequestro Moro. Alle 9:03 in via Fani a Roma, un commando delle Brigate rosse tende un agguato al presidente della DC, Aldo Moro, che è appena uscito di casa e sta andando alla Camera accompagnato da cinque uomini di scorta. I brigasti fanno strage delle guardie del corpo (Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Riviera, Raffaele Iozzino, l’unico che è riuscito a mettere mano alla pistola, e Francesco Zizzi) poi rapiscono Moro e si dileguano. […] Martedì 9 maggio 1978. Cinquantacinquesimo giorno del sequestro Moro. Aldo Moro è stato ucciso. Le Brigate rosse l’hanno trucidato con una raffica al cuore: nel suo corpo almeno undici colpi d’arma da fuoco. Il cadavere del presidente della DC è infilato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Michelangelo Caetani, una piccola strada nel cuore della vecchia Roma, a un passo da via delle Botteghe Oscure (dove c’è la sede del PCI) e non lontano da Piazza del Gesù (dove c’è quello della DC). Il corpo, rivestito con gli stessi abiti che indossava la mattina del 16 marzo, è rannicchiato con la testa contro la ruota di scorta, la mano sinistra sul petto, insanguinata. L’auto è lì dal mattino: una donna ha notato tra le otto e le nove due persone, un uomo ed una donna, che la parcheggiavano. Solo dopo le 13, però, le BR telefonano a uno dei collaboratori di Moro: “Andate in via Caetani, c’è una Renault rossa, troverete l’ultimo messaggio”. Il telefono era sotto controllo, un commissario della Digos va subito sul posto, e immediatamente dopo altra polizia, i carabinieri, le autorità, il ministro dell’interno Cossiga. Per aprire l’auto intervengono gli artificieri: si teme che i terroristi abbiano collegato alle serrature un ordigno esplosivo. La radio dà la notizia pochi minuti dopo le 14.”
I 55 giorni del sequestro Moro, a cura di Roberto Raja, in “Corrieredellasera.it”
«Se vogliamo realizzare i migliori prodotti dobbiamo investire nelle migliori idee». Con queste parole il presidente americano Barack Obama illustra dalla Casa Bianca il lancio del progetto “Brain” ovvero una «ricerca che punta a rivoluzionare la nostra comprensione del cervello umano». Lo stanziamento iniziale è di 100 milioni di dollari nel bilancio federale del 2014 e l’intento del “Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies” è di aiutare di ricercatori a trovare nuovi metodi per trattare, curare e perfino prevenire disordini cerebrali come l’Alzaheimer, l’epilessia e i gravi traumi attraverso la definizione di «fotografie dinamiche del cervello capaci di mostrare come le singole cellule cerebrali e i complessi circuiti neurali interagiscono alla velocità del pensiero». Tali tecnologie, spiega un documento pubblicato dalla Casa Bianca, «apriranno nuove strade all’esplorazione delle informazioni contenute ed usate dal cervello, gettando nuova luce sui collegamenti fra il suo funzionamento e i comportamenti umani». L’iniziativa “Brain” (cervello) è una delle “Grandi Sfide” che l’amministrazione Obama persegue al fine di raggiungere «ambiziosi ma realistici obiettivi per l’avanzamento della scienza e della tecnologia» in cooperazione con aziende private, centri di ricerca universitari, fondazioni e associazioni filantropiche al fine di assicurare agli Stati Uniti la leadership sulla frontiera della scienza nel XXI secolo».
Maurizio MOLINARI, Obama, 100 milioni di dollari per “mappare” il cervello, “LA STAMPA.it blog” 02/04/2013
«Il cervello umano riprodotto su piattaforme informatiche, per ricostruirne il funzionamento in linguaggio elettronico. Obiettivi: trovare una cura contro le malattie neurologiche e sviluppare computer superintelligenti. È l’iniziativa Human brain project (Hbp), che la Commissione europea finanzierà attraverso il bando Fet (Future and emerging technologies). Hbp è stato scelto, insieme a un’altra proposta (progetto Graphene), in una lista di 6 presentate 3 anni fa. Il finanziamento Ue appena assegnato coprirà la fase di start up (circa 54 milioni di euro per 30 mesi), ma la durata prevista degli studi è di 10 anni, per un investimento complessivo pari a 1,19 miliardi. Al progetto, coordinato dal neuroscienziato Henry Markram dell’Ecole Polytechnique Fdrale di Losanna – partecipano 87 istituti di ricerca europei e internazionali, di cui 5 italiani: l’università di Firenze con il Lens (Laboratorio europeo di spettroscopia non lineare), il Politecnico di Torino, l’Università di Pavia, l’Irccs Fatebenefratelli di Brescia e il Consorzio interuniversitario Cineca di Bologna. Il progetto – spiega l’ateneo pavese in una nota – prevede di raccogliere tutte le conoscenze scientifiche disponibili sul cervello umano su un solo supercomputer. Mettendo insieme le informazioni che i ricercatori hanno acquisito sul funzionamento delle molecole, dei neuroni e dei circuiti cerebrali, abbinate a quelle sui più potenti database sviluppati grazie alle tecnologie Ict, l’obiettivo è costruire un simulatore dell’intera attività del cervello umano. Una specie di clone hi-tech. Un modello con 100 miliardi di neuroni – precisano gli esperti – permetterebbe di studiare possibili terapie per contrastare malattie come Alzheimer, Parkinson, epilessia e schizofrenia. Il patrimonio di dati, messi a disposizione su piattaforme avanzate, sarà offerto agli scienziati di tutto il mondo. L’intenzione di Human Brain Project, in pratica, è costruire l’equivalente del Cern per il cervello».
“Il Sole 24 Ore Sanità”, 28 gennaio 2013 (http://www.sanita.ilsole24ore.com)
Come che sia, abbiamo imparato più cose sul cervello e la sua attività negli ultimi cinque decenni che nei precedenti cinque millenni, anche se alcuni, soprattutto in Italia, non se ne sono ancora accorti. Il momento attuale è eccezionalmente favorevole. Perché? Perché si è realizzata una convergenza pressoché miracolosa di tre linee di ricerca sperimentali illuminate da una linea di ricerca teorica, convergenza che ha fatto germogliare quasi all’improvviso una serie di studi e che ha prodotto una serie di risultati degni di essere raccontati. La prima linea di ricerca è rappresentata dalla cosiddetta psicologia sperimentale. Se si vuole studiare l’essere umano, è necessario porgere delle domande e ascoltare le relative risposte, dobbiamo insomma metterlo alla prova. In parole povere, occorre uno studio psicologico. Il fatto è che la psicologia sperimentale è molto lenta: per arrivare a una qualche conclusione ci vogliono decine di anni; se fosse rimasta l’unica linea di ricerca, ci avrebbe fornito informazioni senz’altro preziose, ma saremmo ancora lì ad aspettare. Per fortuna, contemporaneamente si è registrata l’esplosione della biologia, soprattutto della genetica e della biologia molecolare e, un po’ più tardi, della neurobiologia. Lo studio del sistema nervoso e, in particolare, del cervello sono d’altra parte fondamentali per la comprensione approfondita delle facoltà mentali e psichiche.
In un caso come nell’altro, si tratta di scienze né nuove né inattese. La terza linea di ricerca, invece, non era assolutamente attesa. È una linea relativamente nuova e come sbocciata dal nulla: un regalo del cielo o, meglio, della fisica moderna. In inglese questo campo di ricerca si chiama brain imaging o neuroimaging, in francese si chiama neuroimagerie, in italiano non ha ancora un nome. Qualcuno parla di neuroimmagini, ma il termine rende poco l’idea. È comunque la più incisiva delle tre linee, quella che ha dato un vero e proprio scossone all’intero settore di indagine e gli ha impartito un’accelerazione inusitata. Parliamo della visualizzazione dell’attività cerebrale mediante l’uso di macchine, il cui nome è oggi a tutti familiare: tomografia ad emissione di positroni (PET), risonanza magnetica nucleare e funzionale (RMN e fMRI). Queste tecniche strumentali permettono di guardare dentro la testa di un essere umano vivo e vegeto, generalmente sano, mentre esegue un compito.
Edoardo BONCINELLI, La vita della nostra mente, Editori Laterza, Roma-Bari 2011