I punti deboli del progetto di Liberi e Uguali sono evidenti e sono stati esaltati da una campagna di comunicazione abbastanza discutibile, densa di affermazioni contraddittorie, caratterizzata dalla totale mancanza di una linea narrativa condivisa e dalla povertà dialettica – e probabilmente anche di intelletto politco – del temporaneo leader Pietro Grasso.
A ciò si aggiunge la relativa vaghezza di alcune intuizioni seppure molto interessanti e l’incapacità di raccontarle adeguatamente. A partire dalla proposta sulle tasse universitarie, per arrivare all’idea di una tassa progressiva sul capitale totale – la cosiddetta patrimoniale -, LeU ha avuto tutte le carte in regola per fare proposte radicali e sfidare/innovare il senso comune, ma ha scelto un profilo basso e prudente, mantenendo le affermazioni ad un livello di vaghezza spesso sconcertante; oppure ha ridotto di molto le pretese delle proposte politiche.
Abbiamo visto Bersani rassicurare la Gruber sul fatto che la patrimoniale non aumenterà complessivamente il gettito fiscale, limitandosi a renderlo più progressivo: il che è un ottimo punto di partenza, ma in tempi di crisi radicale come questi non è sufficiente ne dal punto di vista economico ne dal punto di vista comunicativo. Ci sono poi stati i continui scivoloni sulla riproposizione del “centro-sinistra largo”, una inspiegabile fretta di parlare alleanze di governo ecc.
Come se i nostri errori non bastassero, abbiamo subito le conseguenze di un senso comune particolarmente avverso. Tralasciando le campagne quasi diffamatorie della maggior parte della stampa nazionale, sempre più chiaramente schierata a centro-centrodestra, dal momento della propria nascita LeU si è vista bersagliata da profezie avverse, pronunciate anche da molte persone che si riconoscono in un’identità di sinistra radicale.
Mentre sui giornali nazionali siamo incredibilmente diventati dei vetero-marxisti, la sinistra sociale e intellettuale ha bollato il progetto come “stampella del PD”, “parte del problema piuttosto che della soluzione”, ha rinfacciato “la guerra in Kosovo e le liberalizzazioni” ai nostri membri più politicamente anziani, prevedendo il subitaneo crollo di quello che è stato definito da più parti come un mero cartello elettorale, pensato ad hoc per riciclare per altri cinque anni un centrosinistra che ha tradito la propria missione storica.
Se da un lato non capisco bene questa propensione alle profezie e preferirei da chi fa informazione e critica politica un po’ più profondità di analisi e un po’ meno subalternità ai pregiudizi, dall’altro ritengo che molte perplessità siano giustificate.
Da poco tempo abbiamo visto Speranza, suppongo con spirito di centralismo democratico, congratularsi col partito per l’approvazione del Jobs Act; allo stesso modo sarebbe stato sciocco dimenticare le azioni di due riferimenti fondamentali di LeU, D’Alema e Bersani, in molte fasi del passaggio cruciale dal post-comunismo al PiDismo neoliberale becero e sgraziato.
Ma nelle critiche da sinistra a LeU, spesso giuste nei contenuti, ci sono anche delle grosse venature di quella che mi vien da definire come pochezza o diseducazione politica. L’esempio migliore di ciò è costituito da alcune uscite targate Potere al Popolo.
Per sgombrare il campo da possibili equivoci, lo dico da subito: Potere al Popolo è una lista che apprezzo molto e che nonostante tutto ha degli aspetti di sperimentazione interessanti; non mi interessa screditarla e sarei stato contento se fosse riuscita ad entrare in parlamento – anche se la proposta di abolizione del 41 bis era davvero scema.
Epperò Potere al Popolo ha passato la campagna elettorale ad attaccare soprattutto LeU nel medesimo momento in cui andava dicendo cose molto simili a quelle contenute nel nostro programma, tanto che a tratti non ho capito bene quale fosse la reale distanza ideologica tra i due schieramenti.
Un membro della lista nella mia città mi ha risposto, quando gli ho rivolto questa domanda, dicendomi che la differenza “Beh, è ovvia: PaP è anticapitalista mentre LeU è socialdemocratica e quindi naturale alleato del PD”.
Al di là di queste interpretazioni abbastanza fantasiose – e, ancora una volta, superficiali -, nel dibattito pubblico le principali argomentazioni di PaP contro LeU non hanno avuto le caratteristiche di una seria critica politica, ma piuttosto si sono concentrate sul brutto curriculum di alcuni dei leader di LeU.
Strategia in parte comprensibile e meno sciocca di quanto potrebbe apparire. Ingaggiare una critica da sinistra alle proposte di LeU avrebbe obbligato PaP a riconoscere che in realtà la linea ideologica è simile, e avrebbe fatto perdere quel frame anti-sistema che è certamente un fattore fondamentale per attrarre il pool di elettori ed attivisti a cui PaP fa riferimento.
Ma è anche una mossa che ingabbia la sinistra radicale in un vicolo cieco, ancora più evidente dopo il trollaggio generale prodotto dalla visita a Corbyn – riferimento di Pap – da parte di Pietro Grasso. Sta tutta qui la diseducazione e la pochezza politica ben simbolizzata da PaP: l’incapacità della sinistra radicale di uscire da una condizione di minorità ed estraneazione totale. Il confronto con LeU, realtà sinceramente socialdemocratica e ispirata da un apprezzabile livello di realismo politico – entrambi poco capitalizzati per i motivi di cui sopra – avrebbe potuto giovare ed essere un esperimento innovativo per uscire da questa condizione di minorità ed irrilevanza.
Uscendo dall’esempio di PaP, ho la sensazione che le maggiori critiche poste da sinistra a LeU dipendano dal modo in cui la lista è nata; ciò è ancora più chiaro se si pensa agli argomenti e alla rottura del Brancaccio.
Molti a sinistra erano probabilmente disposti ad un processo costituente che accogliesse i transfughi dal PD – Articolo1 e Possibile -, ma si sarebbero aspettati una rinuncia, da parte delle leadership dei maggiori partiti dell’area – i due sopracitati più Sinistra Italiana – ad un ruolo di guida.
Così non è stato, e la scelta di Pietro Grasso come podestà ne è la testimonianza più chiara, assieme alle polemiche sui “paracadutati”: il mantenimento dell’equilibrio tra i partiti ha prevalso sulla spontaneità e la movimentazione sociale.
Questa cosa certamente ha insospettito e indispettito molti e probabilmente confermato i timori di un’operazione di puro e semplice riciclaggio di classe politica.
Avrei pure io preferito una soluzione costituente che dissolvesse in maniera più netta e decisa le fedeltà micro-partitiche all’interno di una cornice più ampia e popolare. Ma bisogna essere realistici; o meglio, bisogna pensare e agire con riguardo al contesto, senza perdersi in fantasticherie e vaneggiamenti rispetto a modelli ideali esportati da altri Paesi.
È davvero sciocco andare alla ricerca del “Corbyn italiano” o della “Podemos della penisola”: sia Corbyn sia Podemos sono sorti da stagioni di alta mobilitazione popolare – seppur molto diverse – che hanno travolto il panorama politico, obbligando tutti gli attori in campo ad adeguarsi ad una radicale ridefinizione della posta in gioco, delle identità e delle fedeltà.
Nulla del genere è successo in Italia, la sinistra non è stata travolta da un bel niente se non dalla propria progressiva decomposizione. Nessuno ha la sfera di cristallo, ma i segnali di una futura mobilitazione di massa non sono visibili. Certo li si può attendere o magari fomentare, facendo come i marxisti che attendevano il crollo deterministico del sistema capitalistico; oppure si può prendere atto del contesto, valutare le condizioni e immaginare che la rifondazione possa passare per un percorso diverso, meno spettacolare ma non per questo disprezzabile.
Nella mia breve e spesso superficiale esperienza di mobilitazione, nella distruzione creativa della piazza ci ho sperato parecchie volte. Ho partecipato ai blocchi stradali nel 2010 durante le proteste contro la riforma Gelmini. Il 15 ottobre 2011 ho preso parte alla manifestazione di Roma con gli Indignati, centinaia di migliaia di persone in piazza dietro parole d’ordine progressiste e sociali, come in Spagna nello stesso periodo; un progetto subito abortito per via della follia squadrista dei Black Bloc e delle cariche indiscriminate della polizia. Il 13 dicembre 2013 sono stato alla mobilitazione che ha bloccato Torino per qualche giorno, e ne ho intervistato i leaders; lì ho visto la protesta, ormai egemonizzata dall’onda culturale pentastellata, incattivirsi e allo stesso tempo perdere mordente sociale, accartocciarsi sull’anomia totale laddove qualche anno prima sembrava poterci essere spazio per un’anarchia costruttiva. Poi il vuoto cosmico, o almeno questo ho visto, forse per disillusione, guardando con poca speranza e scarso interesse alla campagna per il NO al referendum, pur avendo comunque passato gli anni recenti a sperare, segretamente, in una fuoriuscita dal PD delle menti più di sinistra o in una conversione del tutto improbabile del M5S, unico partito che ha saputo farsene qualcosa – molto poco in realtà – dell’ondata di protesta contro l’Austerità che dal 2010 ha sferzato Europa e Stati Uniti.
Nel 2017 la scissione è arrivata, dopo qualche titubanza è nato il primo partito italiano – Articolo 1 – che ha detto chiaramente di essere contro l’Austerità, senza al contempo cacciarsi nel vicolo cieco del purismo e dell’irrilevanza totale di cui ho detto sopra.
Certo non mi sarei immaginato di trovarmi dalla stessa parte di alcuni tra coloro che hanno votato il pareggio in bilancio i Costituzione e sostenuto la tremenda esperienza di governo firmata Mario Monti, e i miei dubbi in tal senso non sono mai venuti meno.
Eppure ho aderito, persino con entusiasmo, non perché questo partito mi rispecchi in tutto e per tutto, ma perché per la prima volta ho trovato un contenitore che almeno dal punto di vista del posizionamento politico e ideologico sta in buona parte dove mi trovo io, ovvero nell’ambito del socialismo democratico – quello di Corbyn e Sanders.
Restano tutti i limiti di cui sopra, a cui si aggiunge la natura malinconica della scissione, accanto alla evidente anzianità, non anagrafica ma strategica, del gruppo dirigente.
Nondimeno, proprio perché per la prima volta in Italia è nato qualcosa che va ad occupare quello spazio di socialismo democratico, sono stati attratti in esso molte teste e cuori preparati e infervorati, giovani e meno giovani, con le idee molto chiare su quali siano i nemici da combattere – la deregolamentazione totale del capitalismo, la distruzione dell’ambiente, le disuguaglianze, la distruzione dello stato sociale e della sovranità popolare per via di politiche europee dissennate. È questo che vorrei vedessero coloro che da sinistra ci criticano, è questo l’atto di realismo che vorrei da loro; in Italia l’onda lunga del 2011 globale si è arrestata presto e di conseguenza il processo di ricostruzione sarà, se ci sarà, plausibilmente silenzioso, faticoso e lento.
Più che un’onda impetuosa, è prevedibile una lenta negoziazione tra partitini e fazioncine già costituite, molto calcolatrici e dotate di poca propulsione innovativa; dobbiamo essere noi nuovi senza nulla da perdere, noi radicali per inesperienza, noi disillusi per mancanza di alternative a spingere perché il processo costituente prosegua, si faccia ambizioso e sviluppi delle proprie peculiarità positive.
Non è ancora tempo per il centralismo democratico, se mai lo sarà; il dopo-5 marzo deve coincidere con il tempo della sperimentazione di diverse modalità d’azione e di relazione, della partecipazione disillusa ma decisa. Senza auto-repressione e senza centralismi democratici appunto, ma con una fedeltà di massima ad un campo politico, per il quale la fase di LeU sarà – si spera – solo un punto di passaggio verso la costruzione di un soggetto più ambizioso e moderno.
Robin Piazzo