A Torino una iniziativa studentesca ha occupato la mensa universitaria situata dalle parti di Palazzo Nuovo, famigerato e vetusto e squallido quartier generale del comparto umanistico di UniTo.
In protesta contro i tagli all’E.Di.S.U. (Ente per il Diritto allo Studio Universitario), gli studenti organizzati hanno preso possesso dei locali chiusi da quest’estate (fino a settembre 2014) iniziando a distribuire pasti caldi agli studenti. Qui e qui si trovano i comunicati ufficiali della pagina Facebook dell’iniziativa “Ribaltiamo il tavolo – MENSA liberata” che descrivono i modi e le ragioni della contestazione.
Un video del corrispondente torinese del Fatto Quotidiano sottolinea come il “cambio gestione” abbia portato ad un abbattimento dei costi, se è vero che i precedenti 7.50 € (prezzo per un piatto di pasta e un secondo, fissato dalla ditta che aveva in gestione il catering della mensa per conto dell’E.Di.S.U. – anche qui, fonte del Fatto Quotidiano) sono stati ridotti a 2.50 € per la combinazione primo più insalata. Una cifra molto inferiore anche rispetto a quelle di bar e locali dei paraggi.
Come tutte le occupazioni (o okkupazioni, a seconda delle vulgate), l’evento in sé è un atto dimostrativo che può essere più o meno condivisibile e più o meno efficace. Quello che è strano, come spesso accade, è il contorno (trattando questioni di mensa, un sostantivo appropriato).
“Noi contestiamo il taglio dei finanziamenti pubblici, che ha costretto gli erogatori del servizio ad innalzare le tariffe. Quel rincaro ha fatto calare la clientela. Un nuovo bando per un nuovo servizio mensa, sottoposto però alle stesse condizioni di scarso finanziamento pubblico, non cambia nulla nella sostanza: gli erogatori saranno sempre costretti a fissare prezzi elevati. Con questa manifestazione non intendiamo sostituirci al servizio-mensa, ma solo richiamare l’attenzione sul taglio dei fondi e sulle politiche di gestione conseguenti”.
Queste le dichiarazioni che ci hanno rilasciato dal movimento Ribaltiamo il tavolo – MENSA Liberata.
Sono parecchie invece, sia su Facebook sia nei commenti al video del Fatto Quotidiano, le prese di posizione polemiche – o forse solo ingenue e superficiali – che si indignano per la differenza di prezzi, o che si augurano una autogestione su larga scala per servizi di questo tipo, o che festeggiano quest’atto come una liberazione vera e propria, anche al di là del significato rivendicativo della protesta (che, ripeto, qui non è in oggetto).
Tutto bello, tutto molto giusto, tutto molto facile. Troppo facile. Il discorso dell’autogestione fatto dai commentatori è molto romantico, ma non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca. Mi spiego.
Al netto dei supposti (e non confermati nel caso specifico) rincari, cui siamo abituati quando un servizio pubblico viene appaltato ed esternalizzato, un discorso in cui si paragona il prezzo di un bene fornito da un sistema autogestito al prezzo di un bene “a norma” è un discorso sbagliato nella migliore delle ipotesi e disonesto intellettualmente nella peggiore.
Perché un piatto di pasta costa quattro euro?
- Innanzitutto perché non lo cucina un volontario ma lo cucina un dipendente – e dunque, questa cosa moltoffica della autogestione va a fare concorrenza sleale a dei lavoratori in regola che avranno un danno. Costoro sul lungo periodo si troverebbero costretti a chiudere, giacché questa politica di prezzo è insostenibile. Insomma: si creerebbero le condizioni per rendere disoccupato un cuoco, un cameriere e un gestore di un bar;
- In secondo luogo, perché quando si vende un prodotto bisogna pagarci le tasse, anche solo in termini di IVA.
- In terzo luogo e soprattutto, perché per cucinarlo non è sufficiente avere una cucina funzionale, ma serve avere una cucina a norma. E prevedere tutta quella serie di accorgimenti (dalle porte tagliafuoco per le uscite di sicurezza alle norme igienico-sanitarie, che qui sono demandate al buon cuore e all’attenzione degli occupanti).
Ma la cucina a norma, la lavanderia, il rispetto delle procedure sanitarie, la derattizzazione, insomma tutte quelle pratiche che significano civiltà – e che il pubblico e il privato devono vivaddio rispettare – qui non sono garantite. Magari sono perseguite (finché si può, finché ce la si fa, finché si riesce), ma non garantite.
Quindi, gli osannatori dell’autogestione si mettano l’anima in pace. Delle due l’una: o si liberalizza alla stragrande (anche oltre – ben oltre – quello che piacerebbe a me: e dunque via le licenze, via la normativa sanitaria, via la SCIA, via le tasse, via tutto) e si dà a tutti, privati inclusi, la possibilità di gestire una mensa come la gestiscono i ragazzi del video del Fatto Quotidiano, con dunque la possibilità di approntare una seria concorrenza sul prezzo e tuttavia accettando che qualcuno ti cucini l’orecchietta alla boia di un giuda – magari col rischio di una intossicazione alimentare; oppure se si vuole intendere questa autogestione come la proposta di un modello alternativo lo si fa con tutti i sacri crismi, dalle cucine immacolate alla selezione di personale qualificato alla proposta di menù anche per chi ha esigenze particolari (ché se vuoi chiamarti “servizio pubblico” devi prevedere tonnellate di formaggio in sostituzione del prosciutto per gli islamici e gli ebrei, pasta per i celiaci eccetera). Non rispettare la legge con la scusa del “siamo figli dei fiori” è sbagliato, illegittimo e dannoso. Se poi viene proposto come modello per “una società più giusta” – come recitano i refrain più stantii – è pure intellettualmente disonesto.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi