
Forse ci sarebbe bisogno dell’apporto teorico della psicologia, più che di quello della politologia, per affrontare il tema ciclico della compiaciuta pulsione autodistruttiva della sinistra radicale italiana.
Per di più, questa sinistra è pure involontariamente (si spera) sadica nei confronti dei suoi elettori: le rare volte in cui riesce momentaneamente a sedare o accantonare le beghe interne, a compattarsi in un fronte unitario e, persino, a ottenere un buon risultato elettorale (vedi il 4% della lista Tsipras), puntualmente illude ogni loro aspettativa di imminente riscatto, ricadendo in mondo infantile nei propri precedenti errori e vizi.
Perennemente divisi fra governisti e massimalisti, ovvero fra sostenitori del compromesso politico e difensori della purezza ideologica, gli esponenti della sinistra non riescono a capire che le due strade non sono in contraddizione fra loro, perché talvolta le contingenze dell’attualità impongono un cambiamento di passo. Chi non si adatta ai tempi che corrono, ma cerca di adattare i tempi ai propri ideali, è destinato a scomparire.
Lo abbiamo visto in questi giorni, assistendo alla diatriba interna a Sel fra chi, come Migliore, si è schierato a favore del decreto Irpef (perché considera il provvedimento degli 80 euro una forma di sostegno ai lavoratori) e chi invece, come l’ala vendoliana, ha rifiutato di appoggiare in qualsiasi maniera il governo delle larghe intese guidato da Renzi (perché ogni minima mescolanza con la destra viene ritenuta d’ostacolo alla creazione di una sinistra autonoma).
Alla radice di questo grottesco accapigliarsi per questioni secondarie (rendiamoci conto: non stiamo parlando del dramma vissuto dai socialisti d’Europa nel 1914, indecisi se schierarsi a favore della guerra o contro di essa e, quindi, contro il loro stesso Paese) vi è la totale mancanza di una strategia politica di lungo termine.
Quando Barbara Spinelli, con una giravolta degna di un politico vecchio stampo, si è riappropriata del seggio europeo nonostante avesse promesso di rinunciarvi, non ha soltanto dimostrato di non saper prevedere le facili critiche cui sarebbe stata esposta e che fatalmente sarebbero piovute anche sulla lista nel suo complesso, ma ha pure indirettamente svelato che il progetto Tsipras non era altro che l’ennesimo cartello elettorale di una sinistra rabberciata, priva di una coerente visione del futuro.
La Spinelli avrebbe potuto continuare a essere il garante e la promotrice di una nuova sinistra unitaria in Italia e, invece, ha preferito eclissarsi in un parlamento europeo in cui – inutile nascondercelo – non conterà nulla.
Sia chiaro: non è che la sinistra non abbia sviluppato proposte valide per il Paese. Le ha, ma semplicemente non è capace di spiegarle. L’arzigogolata parlantina di Vendola, debordante di metafore e suggestioni immaginifiche, è una scatola barocca di cui non si riesce a trovare la chiave per vedere se effettivamente, lì dentro, in quel vortice di parole che stordiscono, qualche idea incisiva sia stata messa oppure no.
In questo modo, suscitando l’impressione di badare soltanto a se stessa o di parlare a pochi eletti, la sinistra si trasforma in sinistra radicale o, peggio, in sinistra radical chic e, per un’inevitabile conseguenza, in sinistra extraparlamentare.
D’altronde, il cronico deficit comunicativo è soprattutto figlio dell’assenza di un leader, che, piaccia o no, è ormai indispensabile a qualsiasi partito che aspiri a essere immediatamente riconoscibile dall’elettorato.
Sono andati fino in Grecia per pescarne uno, Alexis Tsipras, e questo ci dice molto dell’impotenza e delle difficoltà organizzative dei vari partiti che hanno assemblato la lista de L’Altra Europa.
Esauritosi il collante di Tsipras, uno che in patria, con grande abilità politica, ha trasformato la giungla di sigle della sinistra radicale nel primo partito greco, i nostri hanno ricominciato a litigare, esibendo la dote non comune di riuscire a perdere anche quando vincono.
Con l’implosione di Sel si ripresenta, così, la mai sopita tentazione scismatica della sinistra, quel desiderio masochistico di frammentarsi all’infinito – finché, si presume, ciascun partito non sia composto che da un solo iscritto, magari in disaccordo pure con se stesso. A quel punto scindersi sarebbe fisicamente complicato: ma siamo sicuri che troverebbero il modo.
A differenza di quanto viene sostenuto dall’attuale classe dirigente, tuttavia, non si tratta di saper resistere alle sirene conformiste suonate dal vincitore Renzi.
Vendola & C., infatti, desiderano utopisticamente rappresentarsi come un’alternativa al PD, quando in realtà dovrebbero esserne complementari, invogliando i democratici ad assestarsi su posizioni più distanti dal centro e più vicine alla sinistra. Il progetto di una sinistra autonoma non è inconciliabile con il dialogo con Renzi; anzi, sono entrambi indispensabili.
A questo punto, sono tre gli scenari possibili:
- il primo è l’emigrazione in massa degli ex Sel nel Partito Democratico. Non sarebbe la fine del mondo e della sinistra, purché il Pd completi la sua mutazione in un partito all’americana, con le varie anime del partito che si sfidano periodicamente per la leadership nelle primarie e, requisito fondamentale, con i dirigenti che si impongono un limite di mandato per le cariche di partito e per quelle pubbliche;
- il secondo è la formazione di un partito che raccolga gli spiantati della sinistra radicale sotto la guida di un leader presentabile come Landini o come Civati. Con una strategia chiara e lineare, un linguaggio semplice e delle proposte concrete (che già ci sono), persino l’obiettivo del 10% non è irraggiungibile;
- il terzo è l’attuale immobilismo, con conseguente acutizzarsi di una crisi della rappresentanza. Tale scenario, come si è visto nelle altre nazioni europee, può degenerare verso esiti allarmanti.
Jacopo Di Miceli
@twitTagli