In parole povere: cosa prevede la riforma costituzionale?

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In molti ci hanno chiesto di pubblicare un articolo informativo sul progetto di riforma costituzionale sul quale saremo chiamati a votare a esprimerci il prossimo 4 dicembre in occasione del referendum. Ci proviamo nelle righe che seguono, cercando di mantenere un approccio assolutamente neutro, cioè senza parteggiare – non in questo contesto, almeno – per il sì o per il no. Per farlo, impostiamo l’articolo come una sorta di intervista: le domande sono le stesse che qualunque elettore potrebbe essere interessato a fare; speriamo che le risposte risultino chiare e utili.
Ricordiamo che la riforma del Senato è stata approvata in via definitiva alla Camera dei Deputati, ultimo passaggio previsto dall’iter legislativo. Se e solo se otterrà la maggioranza dei voti favorevoli al referendum (non esiste quorum) la riforma sarà compiuta.

Qual è l’oggetto della riforma?
La riforma riguarda la seconda parte della Costituzione e precisamente la struttura bicamerale del Parlamento, il procedimento di formazione delle leggi e il rapporto tra Parlamento e governo, nonché le competenze stato-Regioni-enti locali.
Una riforma di queste proporzioni non può che avere un’influenza ancora più ampia: se dovesse passare modificherebbe, a cascata, il funzionamento di diversi istituti.

Che cosa si intende con la locuzione “modifica del bicameralismo”?
Esistono (almeno) tre tipologie di bicameralismo: il sistema di alcuni Paesi prevede l’esistenza di due camere elette entrambe dal popolo; molti altri hanno due camere con legittimazione diversa; un numero residuale di Paesi ha una sola camera.
Con la vittoria del sì si passerebbe dal primo al secondo modello di sistema bicamerale. La Camera diventerebbe  “camera prevalente” (e approverebbe la gran parte delle leggi) e avrebbe l’esclusivo rapporto di fiducia con il governo; il Senato rappresenterebbe i territori, con funzioni non soltanto legislative.

Nel concreto, quali competenze avrebbe la Camera e quali il Senato?
Alla Camera andrebbero la quasi esclusività della funzione legislativa e il potere di conferimento e revoca della fiducia al governo; al Senato spetterebbe il ruolo di raccordo tra lo Stato e gli enti locali, la formazione del diritto UE, la valutazione delle politiche pubbliche, la verifica dell’attuazione delle leggi e il parere sulle nomine di governo.

Il numero di senatori si ridurrebbe? Come e di quanto?
Il Senato si ridurrebbe dagli attuali 315 membri a un numero di poco superiore a cento. Il calcolo da fare è il seguente: 95 tra sindaci e consiglieri regionali + 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica + gli ex Presidenti della Repubblica che accettino l’incarico.
La rappresentanza delle regioni dovrà seguire due criteri: le regioni che esprimono più di due senatori dovranno rappresentare anche le opposizioni; tra i senatori espressi da ciascuna regione ci dovrà essere almeno un sindaco. I senatori rimarrebbero in carica per tutta la durata del loro mandato da sindaco o da consigliere regionale: il Senato diventerebbe, così, un organo permanente.

E questi 95 in che proporzione e con quale criterio rappresenteranno le 20 regioni italiane?
Ogni regione sarà rappresentata da almeno due senatori: il numero esatto sarà proporzionale al numero degli abitanti.
Non è stabilito se la scelta avverrà tramite elezione diretta (per esempio, con la possibilità di esprimere una “preferenza per il Senato” in sede di elezioni regionali attraverso un listino apposito) o indiretta (per esempio, con la nomina automatica dei più votati).
Resta tuttavia un vincolo: la riforma dice esplicitamente che i senatori, in ogni caso, devono essere identificati dalle singole regioni sulla base delle “scelte degli elettori” (una qualche espressione di volontà degli elettori dovrà dunque rimanere, anche se non è specificato quale).

I “nuovi” senatori avrebbero l’immunità parlamentare?
I “nuovi” senatori mantengono le immunità penali dei parlamentari “nell’esercizio e a causa delle loro funzioni di senatore”. In pratica: chi commette un illecito in qualità di senatore avrebbe diritto all’immunità penale.

Oggi il Presidente della Repubblica è eletto in seduta comune da entrambe le camere, peraltro con un complesso sistema di maggioranze. E domani, se vincesse il sì?
L’elezione del Presidente della Repubblica sarebbe, sempre, a camere riunite.
Nelle prime tre votazioni servirebbe la maggioranza dei due terzi (di 725). Dopo la terza votazione servirebbe la maggioranza dei tre quinti.
In pratica nessuna maggioranza politica da sola, con l’attuale legge elettorale che dà 340 seggi al partito che vince, potrebbe, se passasse la riforma, eleggere da sola il Presidente della Repubblica. Dalla settima votazione servirebbe la maggioranza dei tre quinti dei votanti (cioè di coloro che restano in aula fatto salvo il numero legale).

Che cosa succederebbe per quanto riguarda le leggi elettorali?
Se la riforma passasse, le leggi elettorali, su ricorso di un quarto dei deputati (158) o di un terzo dei senatori (circa 32), potranno essere impugnate davanti alla Corte Costituzionale prima di entrare in vigore: per esempio, deputati e senatori potrebbero chiedere alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sulla costituzionalità dell’Italicum.

E per quanto riguarda la promulgazione delle leggi?
Attualmente la formazione di qualsiasi legge è un processo bicamerale: ogni legge, cioè, avere l’approvazione della Camera e del Senato.
Con la riforma, per quasi tutte le leggi si passerebbe a una genesi monocamerale – fatto salvo il diritto del Senato di presentare proposte di modifica.

Alcune specifiche leggi (le leggi di bilancio e le leggi stabilità, per l’impatto che hanno sugli enti locali) sarebbero deliberate dalla Camera e sarebbero automaticamente sottoposte al parere del Senato: anche in questo caso, comunque, sarebbe la Camera a esprimersi in via definitiva.
Alcune leggi, infine, rimarrebbero bicamerali. Il Senato manterrebbe funzione legislativa per quanto riguarda le leggi relative agli enti locali e per alcune materie considerate di particolare rilevanza (revisione costituzionale, bilancio, Unione Europea).

Quale sarebbe l’iter, nello specifico?
In seguito a una delibera della Camera, un terzo dei senatori avrebbe dieci giorni per avanzare proposte di modifica. A quel punto, sarebbe comunque la Camera a esprimersi in maniera definitiva entro trenta giorni.
Se invece il Senato non avanza alcuna proposta di modifica la legge entra immediatamente in vigore.

Come cambierebbero i rapporti tra governo e Parlamento?
Il governo appena formato, con la vittoria del sì, dovrebbe chiedere la fiducia alla sola Camera dei Deputati. In altre parole, solo la Camera accorderebbe e revocherebbe la fiducia al governo.
Sulle sole leggi monocamerali il governo potrà chiedere alla Camera dei Deputati il voto a scadenza predeterminata, cioè a data certa (oggi, alla presentazione di una legge, non si conosce il giorno dell’approvazione o della bocciatura definitiva della legge stessa, tranne poche eccezioni come per esempio le leggi di bilancio).
In tal modo il governo avrà più chance di riuscire ad attuare il programma politico senza dove ricorrere ai decreti legge e non potrà nascondere le proprie responsabilità addossandole al Parlamento.
In compenso, a differenza di quanto accade oggi, il governo potrà ricorrere al decreto legge solo in un numero limitato di casi.

Ci sarebbero sostanziali novità anche per quanto riguarda i referendum?
Attualmente per indire un referendum serve la raccolta di 500mila firme. Se passa la riforma, vi saranno due situazioni:

  1. Il limite minimo di firme rimane di 500mila: se si raggiungono 500.000 firme, si vota con la regola attuale del quorum al 50% + 1.
  2. Se si rggiungono però le 800.000 firme, il quorum per la validità del referendum scenderà: non sarà più necessario raggiungere il 50% +1 degli aventi diritto al voto, ma il 50% +1 di coloro che hanno votato alle ultime elezioni per la Camera (statisticamente, ci si attesta a circa il 35-40%). 

Anche qui, la riforma prevede “contrappesi”: il ricorso preventivo di legittimità sulle leggi elettorali, la previsione di referendum propositivi e di indirizzo e l’obbligo per la Camera di disciplinare lo statuto delle opposizioni (oggi è previsto dai regolamenti parlamentari ma non è un obbligo costituzionale). Inoltre, per le leggi di iniziativa popolare, il numero di firme per renderle presentabili sale da 50mila a 150mila, ma il Parlamento sarà tenuto a esaminarle.

Per finire: quali competenze, attualmente in capo alle Regioni, tornerebbero allo Stato?
Tornerebbero allo Stato le professioni; le disposizioni generali e comuni sul governo del territorio; il coordinamento della Protezione Civile; la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia; le infrastrutture strategiche, i porti, gli aeroporti e le grandi reti di comunicazione.
Alle Regioni resterebbero, com’era nella Costituzione del 1948 prima della modifica del 2001 con la riforma del Titolo V, le varie competenze territoriali: la programmazione dei servizi sanitari e sociali, la promozione dello sviluppo, il diritto allo studio, la promozione e la valorizzazione dei beni culturali e turistici, le intese con gli enti locali per il rispetto dei vincoli alla finanza pubblica.
In sostanza: alle Regioni sarebbero tolti alcuni dei poteri legislativi diretti in cambio della partecipazione, in Senato, alla legislazione dello Stato.

Andrea Donna
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