Il mondo totalmente green è una bufala: senza industria staremo sempre peggio

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Il mondo totalmente green è una bufala. Uno specchietto per le allodole. Di più: pensare di fare a meno di tutte le strutture, le infrastrutture e i presupposti di una grande economia industriale è più che un’utopia. È un autogol.
Quanti Paesi prosperi si reggono solo sul turismo?
Nessuno. Per informazioni, chiedere alla Grecia: coste bellissime, rovine archeologiche a pioggia e assenza totale di qualunque fabbrica capace di produrre automobili, ferri da stiro, lavatrici, strumenti di precisione, tostapane. Per amor di verità, hanno cantieri navali, che da soli ovviamente non bastano.

Negli ultimi anni, invece, si è diffusa dalle nostre parte la vulgata secondo cui la principale (ma leggi: l’unica) industria del sistema Italia dovrebbe essere il turismo. Una clamorosa mistificazione.
La suggestione, come tutte le suggestioni, è suadente e ricolma di ideali positivi; allo stesso tempo, muove da postulati indimostrabili e situazioni idilliache in cui si confondono spesso i mezzi e i fini. Qualche esempio:

  • l’Ambiente (A maiuscola) ne risulterebbe tutelato;
  • il Paesaggio (P maiuscola) ne risulterebbe migliorato;
  • il Benessere (nel significato di “Bengodi”) dovrebbe diventare il “marchio di fabbrica” italiano, tanto per i suoi abitanti quanto per i clienti (nazionali ma soprattutto esteri).

Il tutto senza ovviamente toccare nulla a livello di produzione, infrastrutture, circolazione merci e approvvigionamento energetico. “Per non deturpare”.
Insomma dovremmo cavarcela con gli orticelli bio, il piccolo produttore di vino, le eccellenze del territorio.

Questa visione del tutto insostenibile si nutre di concetti esterni: ad esempio, l’avversione all’industria, che si sveste di connotazioni politiche (“morte ai padroni”) e viene proposta in chiave ambientalista, sottoscrivendo semplificazioni da sussidiario delle elementari in cui la fabbrica altro non è che un parallelepipedo con annessa ciminiera che butta fumi e inquina il laghetto coi pesci rossi.
E poi ancora pregiudizi rivolti contro l’italianità delle imprese: siccome gli italiani non sono capaci di realizzare bene e senza corruttele qualsiasi tipo di impresa o di opera pubblica, tanto vale non farla. È l’assunto di massima di una gran massa di osteggiatori di qualsivoglia struttura. Una a caso, il TAV.

Bene, ripetiamolo: è una bufala. E le conseguenze di questo modo di intendere l’economia e in particolare la produzione sono sotto gli occhi di tutti, se si ha voglia di approcciare le statistiche sulla disoccupazione giovanile.
La nostra generazione non lavora, o lavora male e sottopagata, sicuramente per colpa della crisi e di un mercato del lavoro terremotato; ma anche – e inizio a sospettare: soprattutto – perché l’Italia non ha più un sistema industriale serio, e difficilmente tornerà ad averlo, stante un’opinione pubblica che rifiuta le condizioni grazie a cui un sistema industriale regge.
Difatti, nessuna offerta politica presenta chiari e strutturali piani industriali, se si esclude il Golem della piccola-media impresa. Che non basta! 

Un Paese prospera se:

  • ha un settore industriale medio-grande efficiente;
  • se a questo settore si affianca (e NON “supplisce“) un tessuto di PMI;
  • ha un modo per dare energia a questo sistema industriale medio-grande;
  • ha autostrade, ferrovie e porti marittimi efficienti per far circolare le materie di produzione e i prodotti finiti.

La favola racconta che l’Italia fu un Paese povero di risorse ma abile nel lavorarle. Stiamo abbandonando (leggi: abbiamo abbandonato) questo schema per diventare “l’Italia dove non si fa un tubo ma è pieno di spiazzi carini dove realizzare resort”.
Ah, piccolo dettaglio dadaista: i turisti stranieri dovrebbero arrivare in un Paese dove, in treno, ci si mette 6 ore per attraversare la pianura padana da Torino a Trieste; oppure quasi 8 ore per andare, sempre in treno, da Milano a Bari cambiando almeno un treno. Lo stesso Paese dove gli aeroporti “presentabili” sono sostanzialmente due, Fiumicino e Malpensa, situati a un’ora abbondante di tragitto – scomodo, visto che non ci si arriva comodamente in treno – dalla principale città più vicina.

È per questo che i ragionamenti semplicistici – che sfociano tra le altre cose in un referendum come quello di domenica, testa di ponte per un ambientalismo fru fru – dovrebbero perdere la cittadinanza nel dibattito pubblico.
Nessuno dice di cessare gli sforzi per non peggiorare la situazione ambientale; ma all’interno di questo presupposto bisogna iniziare a pretendere dalle scelte strategiche una attenzione al tessuto produttivo. L’Italia deve tornare a fare cose e a trovare modi adeguati al 2016 per farle circolare in tempi concorrenziali.
Altrimenti, l’apparente collasso attuale sembrerà un parco giochi, se confrontato al domani che ci aspetta.

Umberto Mangiardi

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