In parole povere: cos’è un frontaliere (e che conseguenze avrà il referendum svizzero)?

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Con il termine “frontaliere” si intende indicare una persona che risiede in uno Stato A e va a lavorare in uno Stato B.
Quindi, gli abitanti di Como che lavorano nel Canton Ticino sono frontalieri a tutti gli effetti; lo sono anche gli austriaci che lavorano in Alto Adige, oppure gli istriani che lavorano in Friuli-Venezia-Giulia.

Situazioni del genere spesso sono determinate da dinamiche principalmente economiche (il mercato è più produttivo/remunerativo oltreconfine), ma sono regolate da accordi internazionali.
Nell’Unione Europea vige oramai da anni il famosissimo Trattato di Schengen, che tramuta in norme giuridiche gli orientamenti di principio della UE – primo fra tutti, la libera circolazione di merci e di persone: dunque, all’interno di Stati membri dell’UE, il problema dei frontalieri non si pone perché gli accordi stabiliscono un ampio spettro di libertà per i cittadini. Ma come funziona con gli Stati che non fanno parte dell’UE? In questo caso, o si stipulano accordi tra singoli Stati oppure si stipulano accordi tra associazioni di Stati (c’è anche l’opzione intermedia, naturalmente, e cioè gli accordi con un associazione di Stati da una parte e uno Stato singolo dall’altra).

La principale associazione di Stati che è venuta a contrattare accordi con l’UE ha il buffo acronimo di EFTA (European Free Trading Association): fino a una ventina di anni fa aveva un peso piuttosto consistente, visto che raggruppava Stati come Gran Bretagna e Danimarca, ancora lontani dall’aderire all’Unione.
Oggi l’EFTA raggruppa realtà piccole come il Liechtenstein, realtà lontane o comunque poco popolate come Islanda e Norvegia, ma anche realtà complicate e rilevantissime come la Svizzera.
Chiunque si sia trovato a percorrere almeno una volta la Milano-Laghi saprà perfettamente che per andare in Svizzera non è necessario mostrare il passaporto – e spesso neppure la carta di identità: questo perché tra Unione Europea e Svizzera è in vigore una serie di trattati che estendono l’impostazione di libero scambio di merci e persone anche alla Confederazione Elvetica.
Questo, assieme al fatto di parlare la stessa lingua (almeno in Canton Ticino) e al vantaggio di competere in un’economia più protetta del mercato comune europeo, è il motivo per cui i frontalieri italiani che lavorano in Svizzera sono numerosissimi (l’Ufficio Svizzero di Statistica parla di 65.658 persone: si prega di notare la precisione nell’ordine delle unità), più di 40 volte il numero di frontalieri italiani che lavora ad esempio in Francia (appena 1.500 in totale).

Ma la situazione al popolo svizzero ha iniziato a non andare più a genio – e sottolineo “al popolo”, perché il governo era assai contrario a cambiare lo stato delle cose. Nei giorni scorsi si è votato per un referendum volto a stabilire quote massime per i lavoratori stranieri nello stato rossocrociato: il referendum in questione configurava un intervento di modifica costituzionale (dunque, l’intervento referendario più radicale) in modo da limitare  il numero di permessi di dimora per stranieri, inclusi i ricongiungimenti familiari ed i richiedenti asilo. Non solo: il referendum proponeva l’introduzione di un tetto massimo per tutti gli stranieri che esercitano un’attività lucrativa, “compresi i frontalieri”.

Sono pretese del tutto campate in aria? No. Come al solito, impostazioni nazionalistiche e vagamente xenofobe rispondono a esigenze serie della popolazione, che di solito in questi casi vive un presente o ha prospettive di difficoltà: vengono dunque sbandierati gli “interessi globali dell’economia svizzera” e “il principio di preferenza agli svizzeri”.
Prendendo per buone le stime diffuse dai sostenitori del referendum, la Svizzera ogni anno accoglie 80.000 persone in più rispetto a quelle che lasciano il Paese. Con un surplus di +80.000 abitanti per anno nel giro di una ventina d’anni la popolazione svizzera arriverebbe a 10 milioni di abitanti, numero giudicato dai propugnatori insostenibile per le risorse elvetiche.

Queste situazioni hanno usualmente una doppia soluzione, antitetica: o chiusura definitiva o maggiore apertura per equiparare totalmente le condizioni tra Svizzera e Paesi confinanti (in modo da disincentivare il principale flusso migratorio). Il popolo svizzero ha scelto per una chiusura definitiva, con una maggioranza risicatissima (20.000 voti circa). Per la precisione, in Svizzera un referendum di questo tipo “passa” se ottiene la doppia maggioranza, vale a dire sia la maggioranza dei votanti sia la maggioranza dei Cantoni (che consiste in 14 Cantoni su 26: questo per evitare un predominio di una volontà cantonale radicale sull’indifferenza o peggio sulla contrarietà della maggioranza degli altri: è un sistema, dal punto di vista costituzionale, estremamente raffinato).
È curioso notare che ad essere determinante è stato il Canton Ticino, ossia il “cantone italiano” per eccellenza, dove il 70% degli svizzeri si è dichiarata favorevole a limitare l’ingente afflusso di lavoratori italiani, visti come “ladri di lavoro”. Non sono sfuggiti, infatti, i beceri cartelloni della propaganda elettorale, dove gli stranieri (e segnatamente, gli italiani) erano rappresentati come dei ratti che andavano a rubare il pregiato formaggio svizzero: chi ama le metafore, riuscirà ad evincere agevolmente un significato non esattamente lusinghiero.
Ancora più curiosamente, i primi a lamentarsi contro questa discriminazione sono stati i rappresentanti della Lega Nord, che per la prima volta hanno conosciuto applicazione del principio “Si è sempre i terroni di qualcun altro”. Ma la successiva reazione dei Salvini-boys è stata stupefacente: il processo logico (logico, oddio…) è stato “Non ci piace quello che avete deciso; è ingiusto quello che avete deciso; è irrispettoso quello che avete deciso; Roma deve darci la possibilità di fare lo stesso contro di voi e già che ci siamo anche contro altri stranieri a caso”. Seguono tirate contro la Kyenge e lo ius soli.

Poc’anzi, tornando seri, si era accennato al netto sfavore del governo svizzero nei confronti di questo referendum. Il governo svizzero ha predicato nel deserto, ma aveva le sue buone ragioni: una presa di posizione del genere nei confronti dei cittadini dell’Unione Europea – che si vedranno ridotto l’accesso al mercato svizzero – non sarà certo priva di conseguenze e rappresaglie.
Allo stato attuale, alcune stime affermano che il 78% delle importazioni e il 57% delle esportazioni della Svizzera sono intrattenute con l’Unione Europea. Inoltre i cittadini svizzeri hanno goduto di considerevoli vantaggi “come se appartenessero” all’Unione Europea, per non parlare delle innumerevoli occasioni in cui i vari governi nazionali hanno finto di non vedere gli imponenti trasferimenti di denaro verso le banche svizzere (dal riciclaggio all’elusione fiscale). Se l’atteggiamento della Svizzera dovesse cambiare, l’Europa ha moltissime armi, tutte parecchio affilate, per rendere pan per focaccia. La sospensione del progetto Erasmus per gli studenti svizzeri è soltanto un antipasto light, c’è da scommetterci.

Umberto Mangiardi 
@UMangiardi 

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