
La riforma della legge elettorale viene spesso percepita come una questione del tutto secondaria, frutto di un dibattito sterile, irto di tecnicismi, lontano dalle esigenze della gente comune, insomma come la degna espressione delle inconcludenze della politica, che preferisce disquisire di sistema proporzionale o maggioritario invece di affrontare le questioni concrete che stanno a cuore agli italiani.
Ai cittadini – sostiene qualcuno – non interessa minimamente quale sia il sistema di voto adottato: basta che dalle urne esca una maggioranza che possa governare e che possa finalmente prendere le decisioni che servono al paese. «Corriamo alle urne!», sembrano spronarci questi scaltri imbonitori di piazza, «Non importa come, basta che si voti! Risolveremo tutti i nostri problemi con una crocetta purificatrice!».
Ma non lasciamoci ingannare. La legge elettorale ha un impatto sulle nostre vite ben più ampio di quanto si possa immaginare, e questo perché – conferendo un peso al voto di ciascun elettore – determina l’influenza che i cittadini possono esercitare sulla politica.
In buona sostanza, esiste uno stretto, seppur apparentemente poco visibile, rapporto fra legge elettorale e democrazia. Troppe volte, nel corso della storia, è stata sottovalutata l’importanza della legge elettorale e a pagarne le spese non sono stati di certo i potenti, che anzi l’hanno spesso subdolamente manipolata per rovesciare i principi fondamentali dello Stato.
Non è raro che il preludio a un cambio di regime passi proprio dalla modifica della legge elettorale, che – non essendo quasi mai inserita nelle Costituzioni – è relativamente semplice da ritoccare e si presta così ai capricci personalistici della maggioranza di turno.
Inoltre, trattandosi di un argomento specialistico, difficilmente suscita le passioni popolari; cosicché ci si accorge dei pericoli ìnsiti nella sua riforma solo quando questa è ormai stata approvata.
Un breve excursus nel passato ci aiuterà a capire come la sottile alterazione dei meccanismi della legge elettorale possa silenziosamente estromettere la popolazione dalla gestione condivisa del potere, generando regimi oligarchici se non addirittura dittatoriali.
LA ROMA ANTICA – Nella Roma repubblicana tutti i cittadini, fatta eccezione per le donne, godevano del diritto di voto.
Lo Stato romano era formalmente democratico, ma nei fatti, anche a causa delle modalità di voto, era un sistema misto, che mescolava monarchia (il potere consolare), oligarchia (il senato) e democrazia (le assemblee popolari).
Le principali assemblee popolari erano i comizi tributi e i comizi centuriati.
Precisiamo che erano entrambe assemblee dirette (e non rappresentative come quelle odierne) e che si riunivano almeno una volta l’anno per l’elezione delle cariche di potere (le magistrature).
Nei comizi tributi il popolo era diviso per tribù, che possiamo far coincidere con le attuali circoscrizioni elettorali – dato che di solito i cittadini votavano nelle tribù in cui abitavano. Quest’assemblea era teoricamente sbilanciata a favore dei plebei, numericamente superiori ai patrizi, ed era quindi la vera sede della partecipazione democratica alla vita pubblica.
Tuttavia, con il crescere della popolazione e del territorio repubblicano, l’iscrizione alle tribù cominciò ad avvenire per calcoli politici, in modo che alcune tribù avessero il predominio su altre (ad esempio facendo confluire le masse di nuovi cittadini in poche tribù per dare più importanza a quelle più antiche).
Inoltre, i comizi tributi eleggevano solo le magistrature inferiori, quelle con i poteri civili (tra cui i tribuni della plebe), e non quelle realmente dotate di potere (l’imperium).
Queste ultime erano elette dai comizi centuriati. Anche in questa assemblea tutti (patrizi e plebei) potevano votare, ma il sistema elettorale faceva sì che i poveri non contassero quasi nulla.
Vediamo come. Ancora una volta, l’insieme dei cittadini veniva frazionato in più parti, chiamate centurie. Erano 193 e ciascuna di esse, come per le tribù, costituiva un’unità di voto.
La maggioranza veniva raggiunta quando 97 centurie esprimevano lo stesso parere. Ma dov’era l’inghippo? Nulla di più facile. I cittadini della prima classe, i più ricchi, disponevano di 98 centurie e godevano del privilegio di votare prima delle altri classi. In questo modo, dato che le votazioni venivano sospese quando era raggiunta la maggioranza, le altre classi non erano quasi mai chiamate a votare.
Inoltre, le centurie era divise a metà fra iuniores e seniores (giovani e vecchi), cosicché i secondi, pur inferiori di numero, avevano un peso maggiore dei primi. I comizi centuriati erano perciò un’assemblea marcatamente basata sul censo e sull’età, nonostante la loro superficiale patina di democraticità. Nel corso dei secoli, sulla spinta delle proteste popolari, il sistema delle centurie fu riformato all’insegna di una maggiore equità, ma senatori e cavalieri, grazie alle loro clientele personali, riuscivano comunque a influenzare le elezioni.
Gli storici osservano che, curiosamente, il declino delle assemblee popolari cominciò non tanto con l’estendersi dei confini di Roma – visto che per votare era necessario recarsi direttamente nella capitale – quanto con la pratica della raccomandazione dei candidati alle magistrature.
Augusto, l’artefice della fase di transizione da Repubblica a Principato e poi a Impero, non abolì infatti i diritti dei cittadini romani né, tanto meno, sciolse le assemblee popolari, ma si limitò a svuotarle di significato. Al momento delle elezioni, i comizi potevano eleggere esclusivamente i candidati da lui suggeriti, trasformandosi così in un organo di mera ratifica.
Il parallelismo con le liste bloccate del Porcellum o con le mini-liste dell’Italicum, che impediscono ai cittadini la scelta dei propri rappresentanti, è piuttosto inquietante.
Il passo successivo per il crollo definitivo delle ultime vestigia democratiche della Roma antica fu compiuto quando ai comizi spettò solamente il compito di acclamare i candidati proposti dall’imperatore o dal senato.
GRAN BRETAGNA, 1800 – Facciamo un salto agli inizi dell’Ottocento, in Gran Bretagna, dove il diritto di voto era ancora una prerogativa di un’esigua minoranza (circa 400 mila elettori su poco meno di 14 milioni di abitanti). Qui la legge elettorale per l’attribuzione dei seggi alla Camera dei Comuni prevedeva la suddivisione del territorio in due tipi di circoscrizioni: le contee e i borghi.
Per secoli i confini di queste aree non avevano subito modifiche, provocando profonde distorsioni nella rappresentanza parlamentare.
Alcune regioni – i cosiddetti “borghi putridi” (rotten boroughs) – erano ormai quasi disabitate – ma nonostante ciò continuavano a inviare rappresentanti nelle istituzioni. Nel borgo di Old Sarum, per citare il caso più celebre, la popolazione era costituita solo da qualche centinaio di pecore, che però avevano ben due seggi alla Camera: il proprietario delle terre di Old Sarum, che ovviamente non risiedeva sul posto, si trovava così a gestire un feudo personale e poteva decidere se scegliere direttamente lui i due candidati al seggio o se vendere la circoscrizione – e, con essa, le due poltrone in parlamento – al miglior offerente.
In altre regioni – i “borghi tascabili” (pocket boroughs) –, invece, l’antica nobiltà latifondista, anche a causa del voto palese, poteva agevolmente manovrare le operazioni elettorali corrompendo i pochi aventi diritto.
Di conseguenza, attraverso una suddivisione delle circoscrizioni elettorali arbitraria e di comodo, un pugno di Lord era in grado di controllare la maggior parte dei seggi alla Camera, estromettendo la nascente borghesia industriale, che, pur possedendo il censo necessario per votare, risultava completamente ininfluente (città come Manchester non avevano infatti nemmeno un rappresentante in parlamento).
Nel 1832, dopo anni di pressanti richieste dell’opinione pubblica, fu approvata una riforma elettorale che allargava parzialmente il suffragio e correggeva le storture dei borghi putridi e di quelli tascabili.
Anche oggi la determinazione dei confini delle circoscrizioni elettorali, che a prima vista sembrerebbe irrilevante, può produrre gravi stravolgimenti della volontà popolare. Il Porcellum, ad esempio, per il Senato assegnava degli sproporzionati premi di maggioranza regionali: questo sistema faceva sì che fosse quasi sufficiente perdere in Lombardia e in Veneto per rischiare una sconfitta anche a livello nazionale, persino nell’ipotesi in cui la coalizione fosse riuscita ad aggiudicarsi altre 15 regioni.
MUSSOLINI E L’ITALIA DEL 1923 – L’ultimo esempio della nostra carrellata storica viene dall’Italia del 1923. Mussolini era già capo del governo da un anno, ma la maggioranza parlamentare che lo sosteneva era solo in minima parte costituita da deputati fascisti ed era, perciò, costretta a reggersi sul voto di popolari, liberali e democratici.
Il modo più rapido e intuitivo per dare maggiore stabilità al suo governo era quello di approvare una nuova legge elettorale che favorisse i fascisti.
La Legge Acerbo stabiliva che la lista più votata, a patto che avesse raggiunto almeno il 25% dei voti, avrebbe ottenuto un premio di maggioranza pari ai 2/3 dei seggi (356), mentre il restante terzo sarebbe stato ripartito, su base proporzionale, fra le liste sconfitte.
La riforma passò grazie alle divisioni dei popolari e dei liberali e rappresentò un vero e proprio suicidio della democrazia. Molti deputati si lasciarono tentare dalla proposta di Mussolini di confluire in un unico “listone” per potersi così assicurare una poltrona in parlamento: infatti, scattato il premio di maggioranza, tutti i 356 candidati della lista avrebbero avuto la certezza di essere eletti.
Insomma, misero candidamente il denaro e il potere davanti agli ideali della democrazia. A far da opposizione al listone Mussolini rimasero soltanto i socialisti, i comunisti e la corrente popolare di don Sturzo espulsa dal Partito Popolare dietro pressioni della Chiesa.
Nel 1924, in un clima di intimidazioni e violenze, il listone Mussolini ebbe più del 60% dei voti e i fascisti portarono in parlamento 275 deputati. Per tornare a libere elezioni gli italiani dovettero aspettare più di vent’anni.
Desta impressione confrontare alcuni aspetti del Porcellum e dell’Italicum con la legge Acerbo. Il Porcellum, pur prevedendo un premio di maggioranza inferiore al sistema di Acerbo, non stabiliva tuttavia alcuna soglia minima per ottenerlo (il 20% dei voti sarebbe stato addirittura sufficiente).
Se, invece, nel 1924 si fosse votato con l’Italicum i fascisti avrebbero comunque avuto la maggioranza, ma paradossalmente né i socialisti né i comunisti sarebbero riusciti a entrare in parlamento, a causa dello sbarramento all’8%.
Insomma, con la legge elettorale di Renzi e Berlusconi, Giacomo Matteotti non sarebbe nemmeno stato eletto alla Camera e la sua coraggiosa denuncia delle illegalità compiute dalle milizie fasciste durante le consultazioni elettorali non sarebbe mai avvenuta. Un colpevole silenzio avrebbe così accompagnato la fine della giovane democrazia italiana.
Jacopo Di Miceli
@twitTagli