
“ …sfidavo il mio corpo con il mio sguardo..perchè sono forte..perchè ho smesso di deprimermi..non mi porta a nulla..devo lottare è questo che ho imparato oggi..a lottare..contro il mio corpo..contro tutto questo grasso..devo essere una persona migliore e per esserlo devo cominciare a migliorarmi fuori..” (tratto da un blog Pro Ana, 14 Dicembre 2010)
Si chiamano Pro Ana: sono blog gestiti da ragazze in età adolescenziale e post adolescenziale con l’ossessione per il dimagrimento compulsivo e patologico. Ana è l’abbreviazione di anoressia, ovviamente: chi li visita trova suggerimenti su come perdere peso in fretta e se possibile senza destare sospetti in chi gli sta attorno. Le caratteristiche comuni a ogni post sono l’ossessione per il controllo del proprio peso e di se stessi e la certezza assoluta di non essere affetti da qualsivoglia patologia del corpo e della mente. Sono molto seguiti e chi li gestisce ha uno spaventoso numero di seguaci che rischiano di sviluppare disturbi alimentari (anoressia e bulimia innanzitutto).
La mia esperienza personale, di cui andrò ora a parlare, mi porta a riconoscere pensieri e logiche abbastanza familiari, tali da indurmi a pensare che non siano sadici buontemponi con un gusto perverso per la sofferenza a scrivere, ma ragazze affette da anoressia o fortemente tendenti ad esserlo. Per come è strutturata la rete è quasi impossibile, nonostante il numero sempre più crescente di controlli e divieti, non trovare argomentazioni potenzialmente dannose per il lettore; altrettanto impossibile è evitare ad una sedicenne che vuole trovare motivazioni a sviluppare un sottopeso di trovarne in Internet in tempo zero.
Molte cose si possono dire e raccontare riguardo all’anoressia. Se ne può descrivere l’allarmante diffusione nel mondo e l’aumento di casi di disturbi alimentari nel maschio adolescente; si può cercare di capire, ancora una volta, quale sia il ruolo della società nell’aggravarsi delle statistiche in merito; si può parlare dei suoi legami con il mondo della moda e della pubblicità e dei dannosi stereotipi femminili che esso ha contribuito a creare. In questa sede non si faranno supposizioni né si elencheranno dati, bensì verrà portato in esame un caso individuale di anoressia nervosa clinicamente certificata, l’unico che io possa descrivere con accuratezza, serietà e paradossale distacco: il mio.
Sono stata malata di anoressia a partire dal Marzo-Aprile 2002 – avevo quindici anni e mezzo – e la mia guarigione è stata dichiarata effettiva all’incirca due anni dopo dalla psicologa che mi ha avuta in cura per dodici mesi. Ufficialmente, sono guarita. Mi ammalai in modo banale: l’adolescenza, il confronto con le altre ragazze, la tendenza alla competizione e al perfezionismo.
Quasi tutte le anoressiche sono compulsive, competitive, estremamente insicure e ossessionate dal controllo di se stesse: io ero una di quelle. Iniziai una dieta semplice e non controllata: iniziai a dimagrire, mi piacque. Cominciai a plasmare ogni aspetto del mio corpo e della mia vita e a dominarne ogni secondo: in otto mesi passai dal pesare 45 chili – il mio pesoforma, essendo piuttosto bassa – a 28 scarsi. In questo lasso di tempo mi procurai danni fisici di vario tipo e gravità, riparando ad alcuni di essi nella fase di guarigione. Per molti altri aspetti invece l’iter di guarigione durò anni.
In sintesi accadde che unitamente a peso corporeo perdetti capelli, consistenza muscolare, capacità digestive e metaboliche, temetti di perdere i denti, mi si assottigliarono le pareti degli organi interni – motivo per cui il mio stomaco per molti anni successivi fu estremamente delicato e sviluppai diverse intolleranze alimentari – le mie ossa divennero fragili e cominciarono a non sostenere più il mio organismo. Al termine di questi otto mesi cadevo per strada, mi addormentavo in preda a fortissimi crampi alle gambe e allo stomaco ed ero costantemente tachicardica: non potevo camminare per più di cinquanta metri senza sentirmi svenire. Poi un fortunato concatenarsi di fattori, tra i quali un collasso durante le ore di lezione che mi mise definitivamente sotto l’occhio di alcuni medici, mi portò alla consapevolezza di poter effettivamente morire per qualcosa da me stessa creato e mi feci aiutare.
La mia fu una guarigione facile: mi seguiva un dietologo e avevo uno psicologo che mi ascoltava tre volte la settimana. Io ero collaborativa. Il mio peso, nel giro di un anno, tornò a livelli quasi normali. Benché abbia rischiato molto, il mio è un caso estremamente fortunato per una semplice ragione su tutte: alla fine non sono morta. Ciò di cui spesse volte non si parla è il dopo: una volta curati il fisico e la mente la strada pare in discesa, ma cosa rimane?
Nello specifico, posso dire che fino ai diciott’anni soffrii di incubi notturni – prima quotidiani, poi sempre più rari – che mi garantirono un sonno disturbato, se non nocivo; per i cinque anni successivi alla malattia il mio metabolismo fu pressoché assente ed arrivai ad essere soprappeso, condizione estremamente pericolosa per una ex anoressica. Sviluppai una colite cronica, gastriti nervose che curavo con farmaci e diete controllatissime e vari disturbi gastroenterici che sono guariti nel giro di dieci anni. Tutt’ora ho delle intolleranze alimentari. Le mie articolazioni sono deboli nonostante pratichi sport costantemente. Non mi peso dalla mia ultima visita dietologica.
Il mio rapporto con il cibo è sano solamente da uno o due anni, e sono arrivata a poterlo definire tale solo grazie ad un lavoro su me stessa portato avanti di giorno in giorno, di pasto in pasto, di incubo in incubo. Non ho più fatto alcun tipo di dieta: quando ci ho provato il mio fisico ha reagito in modi abbastanza violenti (nausea, attacchi di brusca tachicardia, tremori) da indurmi a cambiare idea. Attualmente accetto il mio corpo e lo mostro con piacere misto a indifferenza ma sono in grado di guardarmi allo specchio nuda a figura intera solo da un anno circa.
Cosa direi ad una ragazza che scrive o legge un blog Pro Ana? Non le racconterei il perché a suo tempo decisi di dimagrire, né le chiederei perché vuole farlo lei in quanto già conosco la risposta; non le mostrerei foto di me all’apice della malattia perché non si spaventerebbe ma forse la motiverebbe; non le direi quanto siano stati atroci gli ultimi tempi in cui si cala di peso, quando si ha paura a fare qualsiasi gesto che possa scalfire la propria fragilità.
Sommariamente, non le parlerei dei mesi in cui il mio corpo e la mia mente sono stati malati di una malattia assurda ma dei dieci anni successivi in cui la mia mente ormai consapevole ed il mio fisico debilitato dovettero combattere con le conseguenze atroci e la memoria indelebile di quello che era successo loro.
Silvia Nazzareni