Concita, la gola della Kirchner e l’immunità dei giornalisti svogliati

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Un mio compagno di liceo, in quarta ginnasio, domandò alla prof. dove si prendeva la licenza poetica, e chi aveva il potere di concederla. 
Ebbene, con la stessa ingenuità oggi mi chiedo: ma com’è che a un certo punto della propria carriera uno conclude che basta, il proprio lo si è dato, da quel momento in avanti vale tutto, quel che viene viene, si piglia quel che passa il convento? Come funziona?

La mia ovviamente è invidia: mi piacerebbe – come piacerebbe a chiunque – consolidare la propria autorità al punto di essere pagato per scrivere cose a caso.
Ad esempio, Concita De Gregorio messa lì a parlare del Mondiale (ma anche Gianni Riotta, che proprio come stile di scrittura io non riesco a digerire: sicuramente limite mio). Scrivo “messa lì” perché non ho cuore di controllare quello che in realtà già presumo: e cioè che sia pure stata spedita in quel di Rio a condurre una vacanza travest… una profonda e raffinata inchiesta sull’evento mondiale dell’anno.
Ora, probabilmente l’ex direttrice de L’Unità ha all’attivo quarantasette master a Coverciano, ma sinceramente nei suoi reportage non si sono visti.
Stucchevole ai limiti dello strabiliante la lenzuolata sui tedeschi brutti a cattivi che contro il Brasile non si saziano, “una violenza feroce e crudele che infierisce su un corpo, una squadra, un Paese steso a terra in lacrime, al buio nella pioggia, rannicchiato sotto i colpi“.
A questo punto, mi chiedo che tono avrebbe utilizzato se disgraziatamente fosse capitata a Omaha Beach nel giugno del ’44.

Beh, dai, siamo buoni: un passaggio a vuoto può capitare a chiunque. Già, uno: ma ieri i tedeschi brutti e crudeli cambiano pelle, e dalla tragedia si passa – con un cambio di registro simile a una piroetta – al romanzo di formazione, alla narrazione di “quelle storie che insegnano”. E la nostra Concita sforna un parallelo paludosissimo tra “la Merkel che ci mette la faccia” diversa dalla “Kirchner che se ne sta a casa adducendo una laringite come scusa”.
Tutti sanno che la gola della vedova Kirchner sta bene“, furoreggia Concita.
Benissimo, proprio: ha solo avuto un tumore, che volete che sia?

Al di là del lapsus – chiamiamolo così – di due articoli del tutto campati in aria, e cercando di tornare un filino più seri e rigorosi, possiamo iniziare a circoscrivere un trend: ci sono parecchi editorialisti, nello sgangherato panorama dell’informazione italiana, che hanno conseguito una patente di immunità.
Possono scrivere tutto e il contrario di tutto, e ne rispondono (quando ne rispondono, se ne rispondono) solo privatamente. Possono scrivere che un capo di Stato è un vile perché non si presenta a una partita di calcio senza motivo (e invece ha un Paese sul lastrico e giustappunto un cancro benigno alla tiroide); possono discettare di macroeconomia (e poi, una volta al governo, fare una riforma delle pensioni che crea tot migliaia di esodati); possono inventarsi storie di sana pianta (o copiarle da un post su facebook, firmando loro il pezzo: vero Gram?) e passare oltre: l’indomani avranno di nuovo 20 righe (pagate) da riempire.

Ovviamente solo un cretino sosterrebbe la necessità di una legge (una legge?!) per un problema del genere, peraltro in un settore privato (e ci mancherebbe altro); ma infatti il rilievo che qui si sta cercando di mettere in luce è sociale: dovrebbe essere il pubblico, la società, a spernacchiare definitivamente tutti coloro che ingrassano il grottesco catalogo de L’Ego del Giornalista.
Epperò, il pubblico non ha più questa forza, e del resto raramente se ne accorge: il pubblico è scadente, i teatranti sono scadenti, ma con le loro pièce scadenti rendono il pubblico ancora più scadente. Al punto che perfino una muffa può essere travestita da tartufo. Abbiamo appena descritto un paradigma, uno dei tanti, della locuzione “circolo vizioso”.

Ed è facile, e commiserevole, ricordare come codeste raffinatissime penne sono regolarmente assunte e spedite a fare assurde trasferte intercontinentali, mentre altre – come noi – sono costrette ad inventarsi un’attività che porta pochi o nessun soldo per coltivare un lavoro/passione che semplicemente, a differenza loro, avrebbero voglia di svolgere.
E se vi pare che da queste righe trasudi pietismo e recriminazione avete perfettamente ragione, e lungi da me la pretesa di smentire: anzi, mi scuso per questo umore. Ma attenzione: di sicuro noi non siamo sufficientemente bravi per anelare a posizioni del genere, e lo dico con assoluta consapevolezza e senza la minima ironia allusiva.

Tuttavia, nelle nostre diverse, tortuose carriere qualcuno capacino (cit.) lo abbiamo incontrato, fosse anche solo per la legge dei grandi numeri. Avete presente, per tornare al ginnasio, quando si eleggeva il capoclasse? C’era il tacito accordo di non votar per se stessi (che poi tanto la tua calligrafia era riconoscibile, e sai la figura da cioccolataio!). Ecco: se per decoro e autocoscienza davvero non mi sento di dire “io meriterei” o “uno di Tagli meriterebbe“, allo stesso tempo mi ricordo di tutti quei colleghi con cui ho battuto la strada, iniziato a fumare, passato ore a pigliare pioggia e insulti. Qualcuno di questi è pure finito male.
Come per la storia del capoclasse, ecco, si potrebbero fare i loro nomi.

Probabilmente non avrebbero la prosa sensuale (ma dove?) di una firma di Repubblica; sicuramente, prima di scrivere che “mica ha mal di gola la Kirchner” si farebbero venire un dubbio tipo “mica sto scrivendo una cazzata?!“, e con una googlata se la caverebbero.
Basta aver voglia, ci han raccontato per anni: ecco, per certi posti no.

Umberto Mangiardi
@twitTagli  

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