Negli Stati Uniti circola una calzante metafora sul ruolo dell’informazione, secondo cui se in un dibattito televisivo un politico sostiene che fuori piove e un altro, invece, che c’è il sole, compito del giornalista dovrebbe essere quello di guardare fuori dalla finestra.
In Italia la maggior parte dei giornalisti non arriva nemmeno a scostare le tende.
Il giornalismo televisivo nostrano è paralizzato dal terrore di essere accusato di partigianeria e di essere quindi accostato a una parte politica ben precisa. Il terrore iniziale si è però ben presto tramutato in un comodo pretesto per abdicare al ruolo di cane da guardia del potere: in nome di una concezione del tutto snaturata di “giornalismo indipendente” si è deciso che non spetta al giornalista “guardare fuori dalla finestra” – sarebbe una violazione della sua imparzialità – ma al pubblico da casa, sempre che abbia la voglia e gli strumenti per farlo.
Il paradosso di questa ricerca dell’equidistanza a tutti i costi, infatti, è che in realtà non c’è proprio nessuno che si forma un’opinione, ma tutti rimangono convinti della loro. Ad esempio, come posso valutare, nel mio piccolo, l’efficacia di una riforma di governo o la plausibilità di una promessa elettorale senza l’ausilio del giornalista, che può fornirmi dati e opinioni autorevoli frutto del suo lavoro di indagine? Non mi resterà che credere alla parte politica per cui parteggio o allontanarmi dalla trasmissione confuso e disgustato.
Ai telespettatori viene di conseguenza affidata una responsabilità soverchiante: devono decidere da soli, in una stanza murata e senza finestre, se fuori piova o ci sia il sole. La rinuncia del giornalista a prendere posizione diventa perciò un clamoroso incoraggiamento a sostenere il politico con maggiori abilità affabulatorie, il capopopolo capace di convincerti che il sole splenda luminoso anche se il cielo è nero e diluvia, perché tanto non interverrà nessuno per portare una controprova che lo smascheri.
In questo modo, si produce l’esito peggiore di tutti: la degenerazione della democrazia. Facendo scadere il dibattito politico al livello di una contesa fra galli, la televisione diseduca i cittadini e li obbliga a recuperare in prima persona le informazioni che, per paura di perdere la propria neutralità, essa stessa aveva preferito non presentare. Poi non sorprendiamoci se, spulciando nella rete alla ricerca della verità, la gente comincia a credere alle panzane più inverosimili, dalle scie chimiche ai complotti mondiali, e finisce per rincoglionirsi.
La ritirata nel confortevole rifugio della neutralità si è però rivelata una mossa davvero funzionale per le esigenze del giornalismo televisivo. Sottrarsi alla seccante incombenza di contraddire il politico di turno e di approfondire le tematiche del giorno è diventato banalmente un mezzo per risparmiare tempo, energie e denaro per la realizzazione del prodotto mediatico. Uno degli aspetti più sottovalutati del giornalismo è infatti l’economicità della notizia: l’informazione ha i suoi costi e sviscerare una notizia (come nella forma del reportage) può rappresentare una voce di spesa ragguardevole, che qualcuno può giudicare insostenibile o perfino superflua.
Dal criterio dell’economicità della notizia discende la proliferazione dei talk show a basso costo (per finanziarli sono sufficienti uno studio, un conduttore e un piccolo staff di giornalisti e tecnici), ma anche la pessima qualità dei nostri telegiornali.
Spedire per una settimana due inviati sulla scena di un efferato crimine familiare per coprire tutti i risvolti della notizia (la ricostruzione dell’evento, le interviste ai familiari e ai vicini, la documentazione dei sopralluoghi delle autorità, il ritratto della vittima e del presunto colpevole, le dichiarazioni degli avvocati, ecc.) è molto più conveniente rispetto, ad esempio, alla prospettiva di spiegare con dovizia di particolari le implicazioni del trattato commerciale Ttip, stipulato tra Unione Europea e Stati Uniti, che se entrerà in vigore modificherà i nostri consumi quotidiani. Infatti, con un piccolo investimento di tempo e denaro, da un semplice fatto di cronaca nera si ricavano diversi servizi televisivi, facilissimi da realizzare e con un seguito di pubblico assicurato.
Nell’ambito dell’economicità della notizia rientrano anche i servizi mandati in onda dai talk show, che, per lo più, privilegiano eccessivamente le analisi micro a quelle macro. Il giornalista si limita cioè a farsi ospitare nella cucina del pensionato oberato dalle tasse o a recarsi davanti all’azienda sull’orlo del fallimento, ma raramente lo sguardo viene allargato a un quadro complessivo – macro, appunto – che possa aiutarci a comprendere il motivo per cui la spesa sociale, come quella pensionistica, sia stata decurtata, o la ragione per cui lo Stato non è in grado di attenuare la globalizzazione che strangola le imprese italiane. Il perché questo non avvenga è sempre lo stesso: non è considerato conveniente. Non sia mai che il dibattito in studio si elevi toccando temi di portata globale.
Ripiegato su se stesso, il giornalismo televisivo ha così sviluppato una mentalità chiusa e ottusa. Non appena qualche ospite accenna a un discorso, per una volta, interessante e meritevole di approfondimento – gli equilibri di potere tra Germania ed Europa, la situazione in Ucraina, le vere cause del debito pubblico italiano – ecco giungere la voce di Floris o di Paragone a stroncare sul nascere la discussione perché deve essere tassativamente trasmesso un servizio sulla conflittualità all’interno di Forza Italia. Ne deriva un’accozzaglia di notizie, le une scollegate alle altre, e senza che nessuna di queste venga davvero esaminata a fondo per informare il pubblico.
Il provincialismo del giornalismo tv è poi alla radice di quegli effetti che si generano in occasione dei grandi accadimenti e che, se non fossero desolanti, sarebbero quasi comici. Occupatisi per mesi di insulse beghe politiche e scandali irrilevanti, i media appaiono infatti completamente sconvolti e impreparati quando a Parigi irrompono tre terroristi islamisti, o quando le periferie romane si rivoltano contro i centri di accoglienza, o ancora quando Barack Obama annuncia che gli Stati Uniti sono ufficialmente usciti dalla recessione. Per rimediare si affrettano allora a chiamare in soccorso i cosiddetti “esperti” e, nemmeno un minuto dopo che il fatto è avvenuto, le televisioni pullulano già di analisi pretenziose ma che inevitabilmente, per la vicinanza temporale degli eventi, finiscono per essere superficiali e sbrigative.
La grande notizia viene trattata per un po’ di tempo e si fa di tutto per spremerla il più possibile, ma poi, in un mondo che i media hanno reso emotivamente frenetico, anche le peggiori tragedie scivolano indietro nell’ordine delle priorità: tre settimane dopo Charlie Hebdo, il terrorismo interno all’Europa era di nuovo un argomento meno importante di un omicidio familiare nell’astigiano. Fino alla prossima tragedia, quantomeno, quando il carrozzone televisivo ricomincerà dopo averci propinato la giusta dose di rincoglionimento.
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