Quel giorno in cui AnnoUno riuscì a farmi rivalutare Uomini e Donne

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Partiamo da un presupposto: la trasmissione di Giulia Innocenzi, AnnoUno, in onda il giovedì sera su La7, è un format che sta al giornalismo come il sottoscritto sta al campione mondiale di cricket. Non so chi sia, e se lo incontrassi per strada non lo riconoscerei. Era già risultato evidente durante la scorsa stagione, dove un gruppo di ragazzi di varie ideologie politiche ed estrazioni sociali discuteva di temi vari (che variavano di puntata in puntata), assieme ad opinionisti rimediati per l’occasione.

Questo non è giornalismo, questo è Facebook: il posto dove ognuno dice la sua, tutti vogliono avere l’ultima parola, e qualche idiota difende siffatto pollaio scambiandolo per libertà di opinione. Per dire, in una memorabile puntata della scorsa stagione, in cui si parlava di eventuale legalizzazione della Marijuana, gli opinionisti schierati a difesa dell’una e dell’altra parte erano Fedez e Giovanardi. Non voglio nemmeno commentare i personaggi (per quanto il secondo abbia il raro talento di provocarmi un travaso di bile ogni volta che apre bocca): è proprio l’idea che la verità sugli effetti collaterali di una sostanza debba emergere da un confronto tra un rapper e un politico laureato in giurisprudenza ad essere assurda. Non basta il fatto che i due personaggi abbiano opinioni ai due estremi, se non hanno titolo per parlare: non sono medici, non sono poliziotti.

AnnoUno come trasmissione è molto più simile a Uomini&Donne che ad un talk-show giornalistico: un posto dove si fa caciara modello assemblea di condominio su argomenti vari ed eventuali. Intendiamoci, andrebbe benissimo, se si presentasse come tale… il problema è che invece si presenta come trasmissione giornalistica.

Questa nuova stagione di AnnoUno, iniziata col botto giovedì scorso, sembra star puntando su un mercato di audience ancora più redditizio della rissa da pollaio: l’indignazione. La prima puntata era incentrata sugli allevamenti intensivi degli animali da macello, con Alba Parietti e Antonio di Pietro a disquisire sull’argomento (tu quoque, Tonino, come sei caduto in basso…). La prossima sarà incentrata sulle dipendenze da Internet e Videogame, e alla luce del servizio di anticipazione di Pablo Trincia, andato in onda sul finale e dedicato ad uno dei videogame più popolari al mondo, League of Legends, sembra proprio che l’obiettivo di far rimpiangere l’onestà intellettuale di Augusto Minzolini sia finalmente molto vicino al suo raggiungimento.

Questo capolavoro di giornalismo spazzatura inizia con l’inviato che si reca ad assistere alla finale del campionato cinese, accompagnato da una colonna sonora probabilmente recuperata da qualche vecchio film di Dario Argento.

Ora, occorre aprire una parentesti: League of Legends (o LoL), così come altri giochi (DotA, CounterStrike, StarCraft), appertiene ad una generazione di videogame che, oltre ad essere prodotti per il grande pubblico, hanno una struttura competitiva paragonabile a quella di molti sport. Ci sono squadre professionistiche, che oltre ai giocatori hanno allenatori, analisti, e team-manager; ci sono contratti di sponsorizzazione che coinvolgono tutte le multinazionali dei comparti hardware e software (Intel, Logitech, Razer, Samsung, etc.); ci sono campionati continentali con una serie A e una serie B, che vanno in onda in streaming e vengono commentati in diretta esattamente come una partita di calcio; e ci sono i campionati del mondo, a cui partecipano i primi team nella classifica di ogni continente (un po’ come la Champions League). Per via di queste similitudini col mondo dello sport, si fa spesso riferimento a questi giochi come e-sports (sports elettronici). Ci sono stati anche tentativi (seri) di portare questo tipo di videogame alle olimpiadi, ma le proposte sono state bocciate: mancano le caratteristiche di atletismo tipiche di altri sport come ad esempio il dressage.

L’inviato di AnnoUno si trovava alla finale della Serie A cinese (il nome del campionato è LPL – LoL Professional League). Certo, esiste un campionato analogo in Europa – si chiama LCS, LoL Championship Series – ma il commento è in inglese, e c’è il rischio che quando si inventano le traduzioni qualcuno capisca. Appena la presentatrice cinese inizia a parlare, infatti, appare subito evidente che le traduzioni sono fabbricate di sana pianta: “tra pochi minuti questi ragazzi si daranno battaglia fino alla morte”. Nessun presentatore al mondo userebbe mai una frase del genere: il pubblico non ha 8 anni e non sta guardando un cartone animato. Immaginate un paese dove non si gioca a calcio in cui un giornalista fa un’inchiesta sul calcio italiano e traduce il commento di Piccinini con “tra pochi minuti questi ragazzi si daranno battaglia fino alla morte”, è la stessa cosa.

Il commento prosegue parlando di un gioco dove “squadre di teenagers si massacrano l’un l’altro”. Per la precisione, la grafica è simile a quella di un cartone animato, e la “morte” implica che il giocatore sia impossibilitato ad agire per alcune decine di secondi. Secondo il medesimo criterio anche palla avvelenata è un gioco dove squadre di bambini si massacrano l’un l’altro, non comprendo come mai Pablo Trincia non abbia mai indagato questo terribile fenomeno negli oratori e nei cortili delle scuole elementari. Ah già, bisognerebbe essere intellettualmente onesti.

La sanguinaria schermata di gioco

Seguono un intervista ad una coppia di spettatori, un commento sul fatto che i migliori professionisti al mondo guadagnano “anche centinaia di migliaia di euro l’anno” (ovvero molto meno di quanto prende un professionista di qualunque sport), e poi viene inquadrato un allenatore che sta parlando alla squadra.

La traduzione sarebbe esilarante, se fosse un video di Maccio Capatonda e non un servizio giornalistico: “attaccateli molto rapidamente e attenzione al personaggio con la superspada, non dobbiamo farli entrare nella nostra base”.

Questa non è una traduzione distorta, questa è una traduzione inventata di sana pianta: in League of Legends non esiste una “superspada”. Inoltre, i giocatori devono aprire una tab separata per vedere gli oggetti degli altri giocatori: dalla schermata principale non si potrebbe vedere chi ha la superspada, nemmeno se questa esistesse. Inoltre, gli allenatori non possono parlare ai giocatori durante la partita, solo prima o dopo, e i giocatori iniziano la partita senza oggetti, quindi l’allenatore non può nemmeno sapere se un giocatore del team avversario avrà una “superspada” (che continua a non esistere). La frase è completamente priva di qualunque senso: è esattamente come se un allenatore di calcio dicesse alla sua squadra “mi raccomando, attaccateli molto rapidamente e attenzione al giocatore con le turboscarpe, non dobbiamo farli entrare nella nostra porta (spoiler: grazie al cazzo!)”.

Non funziona così: ci sono ruoli, strategie, e i giocatori vengono normalmente identificati dal personaggio che giocano (come i calciatori vengono identificati dal numero sulla maglia).

Pablo Trincia intervista a questo punto un giocatore, che dichiara di allenarsi 16 ore al giorno. In Europa e Stati Uniti le sessioni di allenamento (“scrim” in gergo) dei professionisti dei videogame non superano le 8 ore: verrebbe da dire che in Cina sono eccessivi negli e-sports come lo sono negli sport normali (ricordiamo tutti le polemiche prima, durante e dopo le olimpiadi di Pechino), ma a questo punto dare credito alla traduzione italiana sarebbe al limite della stupidità. Vengono poi fatte due domande ad un manager, che spiega come funziona il talent-scouting, e si arriva al piatto forte: l’intervista alla cosplayer.

Il cosplay (da “costume-play”, gioco del travestimento, o recita in costume) è un hobby di persone che in occasione di fiere, o altri eventi per appassionati, si presentano vestiti come il loro personaggio preferito, generalmente tratto da un fumetto giapponese (Manga), o da un videogame: in occidente sono diffusissimi cosplay ispirati a Star Wars e Star Trek. La ragazza cinese intervistata da Pablo Trincia è vestita “come il suo personaggio preferito di League of Legends, Icy”.

C’è un solo problema: in League of Legends non esiste un personaggio con quel nome. Googlando “Icy cosplay” l’unico risultato è quello di un personaggio del cartone “Winx Club”, ed ha comunque un costume diverso.

Pablo Trincia ha preso una cosplayer a caso, ha inventato il nome del personaggio, e l’ha infilato in un videogioco che non c’entra niente.

Cosplayers ad una convention di fumetti

Ci si avvia quindi verso la conclusione del servizio, specificando che “durante questi eventi le partite durano ore ed ore”. Ovviamente è falso (ca va sans dire): la durata media di una partita è 40 minuti, ma le partite dei professionisti durano spesso di meno. Certo, questi eventi durano diverse ore, perché le partite di un campionato non vengono giocate in contemporanea, e quindi le squadre si alternano. Però Trincia ci tiene a specificare che “dopo un’intera serata a guardare mostri col lanciafiamme non ne può più”. E chissenefrega? C’è a chi piace il calcio, io dopo 5 minuti (non un’intera serata, 5 minuti) mi rompo le palle, sai che faccio? Non guardo il calcio, faccio altro nella vita. Ma non sento il bisogno di girare un servizio pieno di stronzate per comunicarlo al mondo.

Finale col botto: “dietro alla facciata del successo, si nasconde un nemico che solo in Cina ha fatto 20 milioni di vittime, la dipendenza da videogame”. Non mi soffermo nemmeno più sulla cifra, ormai parto direttamente dal presupposto che sia falsa, anche perché non si specifica nemmeno cosa si intende per “vittime” (morti? ricoverati? stime fatte su base statistica? boh?): andiamo invece a chiederci cosa vuole comunicarci Trincia. Non è che uno debba andare molto lontano, basta leggere le righe di accompagnamento al video: “È una droga, ma non si sniffa o si fuma: si guarda. Pablo Trincia è partito dalle periferie d’Italia per arrivare in Cina, dove esistono veri e propri campi di rieducazione per chi è dipendente da videogame, rete, social network”.

“È una droga”: punto di vista molto equilibrato, fa già capire quanto la prossima puntata sarà imparziale.

“…in Cina, dove esistono veri e propri campi di rieducazione…”: al massimo cliniche per curare la dipendenza, i campi di rieducazione in Cina erano quelli di Mao-Tze-Tung. A proposito, le cliniche per curare la dipendenza da Internet e Videogame esistono anche in Europa, la più famosa è in Danimarca. Purtroppo ambientare il servizio in Europa rendeva più complicato inventarsi le traduzioni di sana pianta, quindi val ben la pena di pagare un po’ di più il biglietto aereo, vero Pablo?

“…per chi è dipendente da videogame, rete, social network”. Questo evidentemente prova che i videogame, Internet e i social network sono una droga: ci sono persone dipendenti e cliniche per la dipendenza! Di fronte ad una simile logica ferrea non posso che alzare le mani: a questo punto, sempre per il famoso discorso dell’onestà intellettuale (inserire fragorose risate del pubblico qui), mi aspetto che i prossimi servizi di Pablo Trincia e di AnnoUno in generale approfondiscano i seguenti argomenti:

  • Il cibo è una droga. Prova: esistono persone dipendenti dal cibo, e cliniche per dimagrire.
  • La dieta è una droga. Prova: esiste l’anoressia ed esistono cliniche per curarla.
  • Il sesso è una droga. Prova: esistono satiriasi e ninfomania, ed esistono delle cliniche per curarle.
  • Il lavoro è una droga. Prova: esistono persone dipendenti dal lavoro, e cliniche per curare l’esaurimento nervoso.

A proposito, esistono anche persone dipendenti dal bere troppa acqua. Si chiama potomania, o polidipsia psicogena… a quando un bel puntatone di AnnoUno contro questa terribile droga?

Luca Romano

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