Quando un’azienda chiude: storia di vita vissuta

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La notizia non era del tutto inaspettata.
Due anni che lavoravo lì, da qualche mese le cose non andavano poi così bene.
Come operatore di Assistenza Clienti per una piccola società di e-commerce, ti rendi conto subito che qualcosa non va. La mole di lavoro era scesa tanto in pochi mesi, gli ordini spediti ogni giorno calati in modo straziante. Pian piano sono cominciate ad arrivare sempre meno mail, chiamate, chat, ed abbiamo cercato di impegnare questo tempo in più creando offerte, realizzandone le grafiche ed impegnandoci ad inviarle via mail ai Clienti.

Nulla, il mercato ha avuto la stessa reazione di quando si pungola un cadavere col bastone per vedere se si muove o meno, sapendo comunque che non lo farà.
Abbiamo firmato tutti la lettera di licenziamento. Venti giorni di preavviso a metà maggio. Col ponte per la festa della Repubblica, il nostro ultimo giorno è stato il primo giugno.
Per la prima volta nella mia vita subisco un licenziamento improvviso, diciamo.
Per fallimento, per chiusura di attività.
Tutte le altre volte c’era già una scadenza fin dall’inizio, oppure sono stato io ad andare via, magari anche da un contratto a tempo indeterminato. Ma questa è una brutta novità per me, sapere che per volontà di tutti e di nessuno io me ne devo andare. 

La prospettiva non è rosea: ho trentuno anni, nessuna laurea o certificazione specifica. Ho iniziato con lavoretti minori, dal banchista al negozio di famiglia al vendemmiatore, passando per magazziniere.
Mi sono poi avvicinato al mondo del Customer Care andando a Lecce e lavorando nel turismo, poi tornato a Roma ho intrapreso la mia “carriera” all’interno di un Call Center, lavorando inizialmente su Sky come operatore e qualche mese dopo come Supervisore per la nascente campagna Apple. Un’esperienza straordinaria che mi ha in qualche modo formato sulla gestione delle persone, di Clienti che raramente volano sulle ali della cortesia e che invece spesso vorrebbero trascinarti nelle sabbie mobili dell’ignoranza, dell’arroganza e della stupidità. 

Ho sempre pensato a questo tipo di lavoro da una parte come ad una valvola di sfogo per tutto quello che si accumula fuori, ma da una parte una grossa fonte di stress per quando poi esci e devi affrontare la gente.
Negli anni mi sono capitati Clienti che non avevano idea nemmeno di come si sbloccasse lo schermo del telefono. Persone che tirano fuori il peggio delle loro giornate frustranti, vite intere piegate a volontà altrui e per questo un numero di assistenza tecnica diventa valvola di sfogo.
Siamo cresciuti con operatori di call center che chiamano ad ora di cena per proporre servizi e prodotti di cui non ci importa, e su questo l’italiano ha basato la sua politica di vaffanculo quotidiani che gli rimangono incastrati in gola perché al capo non si possono dire.
Quando poi passi dall’altra parte della barricata, e sei tu con le cuffie in testa a beccarti i peggiori improperi, allora le prospettive cambiano.
Se il tipo di lavoro che fai non è quello di devastare il cazzo agli altri, ma aspettare che un cliente impacciato ti chiami perché quello che lui ha scelto, ordinato, pagato e ricevuto non è quello che voleva, allora le carte in tavola cambiano.

Non è un lavoro semplice, quello del Customer Care da remoto. Bisogna confrontarsi con persone di cui non vedi la reazione in viso, che hanno magari pensato fino a quel momento qualcosa di geniale e che gli smonti citando due leggi e doveri che da quando esiste l’Internet tutti dovrebbero conoscere: diritto di recesso in primis, ma anche la differenza tra spedizione e consegna.
No, non scherzo, ho scritto un intero post a proposito delle differenze tra le due cose.
Capirete da soli che se sognate operatori cortesi e disponibili, anche dall’altra parte noi abbiamo il pallino di clienti che almeno sappiano di cosa stanno parlando.
E invece ci sorbiamo persone che ci chiedono quanta cacca possono fare nel WC chimico per camper che vendiamo, o che protestano se voglio rimandarci indietro un prodotto dopo tre anni solo perché non gli piace più.
Dopo tre anni.
Io cambio gusti ogni dieci minuti, che dovrei fare allora?
Ma questo tipo di lavoro, così come ormai molti altri, qui non interessa più. 

Parliamo di un campo in cui, se rispondi al telefono, non contano lauree, master e certificazioni. Sei un centralino di carne, e per farlo non serve essere un’eccellenza del campo.
Sei sostituibile, intercambiabile.
Nell’azienda dove lavoravo prima si faceva proprio questo: esclusi noi fortunati, impiegati su una campagna seria, tutti gli altri potevano chiudere la sera su una campagna e ritrovarsi il giorno dopo a rispondere per un’altra.
La formazione era minima, le delucidazioni assenti.
Peggio ancora è stato quando invece che spostarsi di un solo piano nello stesso palazzo, ad alcuni venne chiesto di andare nella seconda sede romana, se non in quella in Albania.
Vuoi lavorare? Molla tutto e vai lì, altrimenti ci sarà qualcuno nato e cresciuto lì che per un quarto del tuo stipendio farà il doppio delle cose.

E così si uccide quello che per molti era un mestiere, quello che per me è diventata una formazione umana e professionale. Se tutto questo lo sposti poi dentro una piccola azienda di nemmeno dieci dipendenti, che fa da call center ma anche da magazzino, da punto di ritiro, da centro di spedizione, nel momento in cui uno dei reparti si incrina viene giù tutto il resto. C’è poco da fare.
Quando poi il marcio è intorno, ed è enorme come le macchie di umidità sui soffitti, non puoi far altro che vedere i tetti crollare.
Non è un mondo facile nemmeno quello del commercio.
Siamo ormai abituati a vedere negozi chiudere, saracinesche sigillarsi per sempre sullo scalino di marmo, cartelli di Vendesi più frequenti dei cartelloni elettorali di questo periodo.
Ci segnano perché abituati a vedere facce familiari chiederci come va, anziani salumieri dal sorriso perenne e cassiere svampite che ti chiamano coi nomignoli coatti ma affettuosi (Amò, Tesò, Meravijoso).
Ci segnano perché li vediamo, respiriamo gli odori dei loro locali, ci fanno lo sconto, ci tengono da parte quell’ultimo pezzo di provola perché sanno quanto ci piace.
E ad ogni cartello di fallimento ci piange un po’ il cuore.

Poi c’è un altro tipo di commercio, quello elettronico, quello a distanza, che si è sviluppato enormemente negli anni portando Clienti abituati ad essere guidati passo passo, ad agire in modo indipendente ed autonomo, rendendoli edotti dei diritti e doveri a cui vanno incontro acquistando online, limitando al minimo critiche, rivalse e recensioni negative.
Questo, all’estero.
Perché in Italia il Cliente vuole essere guidato/tutelato/coccolato e mentre compra al prezzo più basso del mondo il TV più grande dell’universo vuole anche lo sconto.
E la consegna al piano.
E sei mesi di Netflix pagato.
Ed alla fine ti mette 3 stelle su 5, nonostante secondo lui sia andato tutto bene e non abbia nulla da segnalare.

Viene da sé che la base da cui si parte non è delle più solide. In più bisogna metterci il fatto che se nel mondo ci considerano dei cazzoni, in Italia noi sappiamo di esserlo.
Quindi se cento metri fuori dalle Alpi già il cioccolato in Autogrill è preferibile pagarlo con carta, qui da noi preferiamo il cartaceo.
Monete, rettangoli puzzolenti, far vedere il portafogli pieno, lamentarsi di non aver mai visto la banconota da 500 €.
Ci piace ostentare, siamo arroganti e per questo se all’estero tutti preferiscono pagare elettronicamente (sicuramente agevolati da uno Stato se non razionale, almeno un poco intelligente), da noi chi vuole farti pagare così è un truffatore. Un malandrino. Un ladro.

Tanta, troppa gente senza decenza ha esordito al telefono dicendoeh ma io come faccio a fidarmi di voi? e se mi rubate tutto?“.
Non sto scherzando.
Come se io chiamassi il servizio clienti di Sky e volessi rassicurazioni che dal conto bancario non viene toccato nulla oltre i 29,90 €. E infatti c’è chi ancora preferisce prendere il bollettino ed andare alle poste, dal tabaccaio, tirare fuori i contanti e pagare.
I miei stessi Clienti preferiscono una spedizione in Contrassegno per dare così il cash agli autisti. Sembriamo uno di quei paesi che non hanno avuto nulla fino all’altroieri e che per questo devono ingozzarsi e far vedere a chi non mangia che loro quasi soffocano, in mezzo ai soldi. Poco conta se sono bronzini, centinaia di piccole monete che però fanno volume e quindi siamo tutti Zio Paperone con cerchi di metallo in un barattolo vuoto. 

Certo, le colpe sono da ricercarsi in primis sempre dentro l’azienda: seppure chi la gestisce ha un’enorme esperienza nel campo dell’elettronica, delle reti e della telefonia, è anche vero che i tempi cambiano.
Siamo partiti dai suoni strazianti dei modem a 56k, arrivando a connessioni immediate e senza filo. Se prima si usava il telefono, per chiedere informazioni ad un’azienda/operatore/servizio, adesso ci sono mail e chat che offrono un servizio più preciso. Quando con un click si può arrivare ovunque, bisogna a maggior ragione dare informazioni utili al Cliente per evitare che abbia poi bisogno di aiuto. Istruirlo, educarlo. E non perché così non devi smazzartelo tu, o comunque non solo.
Rendendo il Cliente il più indipendente possibile, riesci a ricavarti più tempo per tentare di rendere la sua esperienza di acquisto ancor più soddisfacente, puoi dedicarti a migliorare tu e lo spazio intorno, soprattutto se sei una piccola azienda che ha per sua natura deve aggiornarsi di continuo.

Questo, l’insegnare al Cliente, in Italia non esiste: da una parte l’operatore preferisce risolvere il problema subito e chiudere la chiamata il prima possibile, dall’altra il Cliente vuole la stessa cosa, e cioè una risoluzione veloce e semplice.
Spesso, nella mente ottenebrata di chi non sa vivere, la soluzione veloce e semplice la si vorrebbe anche senza l’intervento di nessun tipo da parte del Cliente stesso. A sobbarcarsi il tutto deve essere solo chi, lavorando al telefono e magari a centinaia di chilometri di distanza, deve avere parecchia confidenza con telecinesi e cordialità.
E poi c’è un ambiente marcio intorno, fatto di fornitori che rimediano prodotti facendogli fare il giro del mondo per evitare (evadere?) l’IVA, e poi te li rivendono al doppio del prezzo di mercato. Figli di papà che comprano per noia una società giusto per spendere quei due/tre milioni e poi se ne sbattono di regole-leggi-contratti che preferiscono mettere in mezzo gli avvocati, tanto ci hanno sempre guadagnato, o comunque non ci perdono mai. Un mondo fatto di impicci, attaccato anche lui a quella ragnatela di tasse raggirate e leggi ignorate, in cui tutto si incastra, in cui si riesce sempre a farci rimanere appiccicato qualcosa e che non fa passare nulla.
Che tutto filtra e che lascia lì, a smangiucchiare un po’ di qua e un po’ di là, che tanto di cibo se ne trova sempre in quantità.

Io non lo so, che fine faccio. Avevo iniziato a scrivere questo pezzo pochi giorni dopo la firma della lettera di licenziamento, ed oggi sono quasi due settimane che sono fermo.
Mi guardo e chiedo in giro, cerco il lavoro della vita sapendo che è quello che faccio da anni, e cioè scrivere.
Quindi aspetto la disoccupazione e torno ad essere un numero, una percentuale nella forbice dei trentenni che se la sono presa in quel posto.
Un po’ mi fa paura, un po’ sia mai quella scossa che ti cambia la vita.
No, è più paura, e basta.

Jacopo Spaziani

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