Troppo tempo è passato dall’ultima nota, ma non sono certo uno che abbandona le cose a metà. Dunque, dopo la violenta desolazione dell’Iowa della scorsa volta, vi invito nuovamente all’ascolto e al viaggio in uno spaccato biografico. Cronologicamente siamo sempre nel solito momento, nei primi anni del XXI secolo, nel pieno della mia adolescenza. Rimaniamo negli U.S.A. e ritorniamo – ancora una volta – a Los Angeles, California.
Ma stavolta ce ne staremo alla larga da spiagge, sole e tutto quell’immaginario che ha reso famoso lo Stato americano per tuffarci in un’altra realtà. Le immagini e le sonorità impressionate dal gruppo lo distanziano notevolmente dalla tipica solarità delle band californiane e ci sono non indifferenti ascendenti nella scena punk locale, ma lo stile è talmente sincretico che col punk finisce per non avere nulla a che fare. O quasi.
Insomma, lo scoprirete.
T come… TRANSPLANTS
Vi consiglio: Transplants, Transplants
Tracklist: Romper Stomper / Tall Cans in the Air / D.J. D.J. / Diamonds and Guns / Quick Death / Sad but True / Weigh on My Mind / One Seventeen / California Babylon / We Trusted You / D.R.E.A.M. / Down in Oakland
Etichetta: Hellcat Records
Anno: 2002
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Ai tempi in cui MTV era ancora un canale musicale, vi era un programma particolarmente interessante e lontano dal dilagante mainstream sonoro proposto dall’emittente. Il programma si chiamava Brand:New e si interessava, appunto, alla promozione delle nuove tendenze musicali alternative e di nicchia.[1]
A condurre vi era Massimo Coppola, l’attuale direttore della rivista Rolling Stone, il cui stile segnava un netto contraltare rispetto a quello dei suoi colleghi vj: parlantina esuberante loro, un discorrere quasi sommesso e riflessivo il suo; uno stile “alla moda” e trendy loro, basic e scuro lui; una presenza vivace loro, un atteggiamento tra il noir e il filosofico lui.
C’è da credere che ovviamente fosse tutto studiato, ma aveva comunque un impatto non indifferente dato che comunque era l’unica conduzione a distinguersi nettamente dalle altre. Aggiungeteci il fatto che il programma veniva trasmesso la sera tardi e il gioco a scavarsi la propria nicchia era completo.
Ora, non è che durante la settimana un adolescente potesse permettersi di fare le ore troppo piccole, quanto meno a me non era certo concesso. Ma, come per ogni mio coetaneo, le regole erano fatte per essere infrante e così mi trovavo spesso a scoprire “qualcosa di nuovo” grazie a Coppola.
Una di quelle sere viene presentato un gruppo che solletica immediatamente le mie attenzioni: si chiamano Transplants, dentro ci sono Tim Armstrong e Travis Barker – rispettivamente chitarrista dei Rancid e batterista dei Blink 182. Il progetto è particolare e la componente punk dei nostri lo attraversa solo in parte.
Il singolo di lancio è Diamonds and Guns, che qualcuno di voi forse ricorderà per il suo accattivante ed efficace arrangiamento di piano, suonato peraltro dal co-produttore della band, Dave Carlock.[2]
Il video si svolge in gran parte dentro un negozio di antiquariato dove la musica di un juke box fa prendere vita ai vari oggetti, in un’atmosfera tra il fiabesco e il grottesco. I nostri viaggiano nella suburbia di una città che diventa così il riflesso di quel mondo strampalato che ha preso vita in quel negozio.
Lo stile mescola liberamente essenzialissimi accordi da punk rock stradaiolo e un cantato altrettanto semplice con effetti elettronici e rabbiose rime rappate, una sorta di nuova creatura musicale per descrivere una porzione di vita urbana e le evasioni cui dà luogo.
Da dove nasce questa nuova creatura? Tutto gira intorno agli esperimenti e alla creatività di Armstrong che si diverte a comporre musica per conto proprio e decide di coinvolgere un suo roadie, Rob Aston, per scriverci su qualche rima.
L’idea piace e si inizia a pensare di coinvolgere un giro sempre più ampio di musicisti per arricchire il materiale, ma Armstrong e Aston decidono infine di andare oltre il “laboratorio aperto” e di mettere su un gruppo vero e proprio: è così che Travis Barker si unisce alla cricca nelle vesti di batterista.
Nel 2002 esce il primo disco omonimo dei Transplants.
Il disco arriva nella mia collezione in breve tempo. La curiosità dell’ennesimo tentativo di miscelare le componenti più crude dell’hip hop con quelle di un rock urbano e di un punk ruvido è inarrestabile. Come detto, la risultante stilistica è fortemente inusuale e proietta in un universo quasi immaginario di sobborghi alternativi, atmosfere vivide e partecipate, personaggi rinnegati, sonorità ficcanti e improbabili incontri.
Il disco si arricchisce di collaborazioni provenienti da tutto il mondo della musica che possano incontrarsi nel solco immaginato da Armstrong, Aston e Barker. Troveremo pertanto un rapper come Son Doobie, l’organista Vic Ruggiero ad aggiungere impressioni di groove dal sapore reggae e ska, e musicisti provenienti dal mondo del rock o del punk come Matt Freeman e Lars Frederiksen (già colleghi di Armstrong nei Rancid), Davey Havok e Brody Dalle – allora moglie di Armstrong.
Lo scantinato di Armstrong è insomma un vero e proprio laboratorio di idee che sviluppano le sue iniziali in un prodotto che sfugge alle logiche delle classificazioni. I loop elettronici incontrano gli arrangiamenti strumentali, le influenze della black music si sovrappongono alla rudezza del punk rock, le rime rappate possono diventare berci rancorosi o incontrare un cantato rock alcolemico, la scioltezza ritmica di Barker si adatta alle diverse amalgame senza che se ne perda la sostanza.
Sembra di entrare in un mondo fatto di toni di blu che si riflette sulle lenti di occhiali da sole da quattro soldi, che scorre come una panoramica (lenta o rapida a seconda dei momenti) attraverso i finestrini di una vecchia dodge truccata e rimessa a nuovo. Entriamo in una mondo parallelo e liminale, dove vige un’altra legislazione, in cui un sommesso rancore verso una realtà che non ci appartiene pare fare da collante anche ai legami di unità e di solidarietà che incontriamo: mani che si stringono, bicchieri che si svuotano, spinelli che passano, fratellanze di sangue pseudo-criminale, sospiri di amarezza affogati in qualche eccesso e piccole grandi rabbie che si polverizzano come sostanze stupefacenti nella quotidianità.
La musica dei Transplants pare suggestionare questo e molto altro, attraverso una composizione che fa incontrare gli stili di diverse sottoculture urbane in una sorta di agorà stilistica alternativa senza precedenti.
Se la opening track non lascia scampo nel suo vortice di strofe al vetriolo e di impietose distorsioni, già la successiva Tall Cans in the Air, complici anche le linee di basso di Matt Freeman,ci porta su territori in cui l’hip hop e soluzioni più accattivanti si fanno spazio con decisione.
Queste ultime componenti trovano la loro vera consacrazione nel mood decisamente orecchiabile di California Babylon, ma soprattutto in D.J. D.J. – secondo singolo estratto dall’album – con la sua atmosfera festosa sottolineata da un riff principale destinato a piantarsi in testa.
Non mancano gli episodi più decisamente punk, sudici e ruvidi fino al midollo, basti a pensare a One Seventeen (unico brano del disco senza collaborazioni esterne al trio) e soprattutto a Quick Death dove troviamo la berciante collaborazione di Davey Havok e violenze chitarristiche accavallate con stridenti effetti elettronici.
I pezzi diventano notevoli quando si fanno più mesti e introspettivi, delle sorte di blues di questa nuova marginalità suburbana musicata dai Transplants: l’accoppiata vocale tra Tim Armstrong e la sua compagna Brody Dalle nel ritornello di Weigh on My Mind è in questo senso evocativo e catchy come pochi sanno esserlo, l’atmosfera poi si tinge di un’acre tristezza frustrata in Sad but True, ed emergono infine lo straniamento cupo e cantilenante di Down in Oakland e la profonda e malinconica delusione di We Trusted You – sottolineate queste ultime dal grande lavoro al B3 Hammond di Vic Ruggiero.
Sposalizio tra i più felici tra le diverse componenti e le diverse anime musicali dei Transplants si ha però con ogni probabilità in D.R.E.A.M. dove l’hip hop – coi suoi loop e i suoi scratch – incontra un arrangiamento rock fatto di arpeggi e soluzioni decisamente blu che contribuiscono a creare un’atmosfera di deviato onirismo e di malata perdizione.
L’opera prima dei Transplants è uno di quei dischi che non hanno sbavature, che funzionano dall’inizio alla fine in ogni singola sfaccettatura: più di due anni di lavoro (dal gennaio 2000 al giugno 2002) hanno dato i loro frutti. Anche se il periodo era lo stesso dell’esplosione e della fortuna del nu metal, non era affatto detto che il prodotto del polo di musicisti riunitisi intorno ad Armstrong e ad Aston potesse emergere e distinguersi dal mucchio mostrando così di aver raggiunto un certo grado di maturazione.
La sperimentazione è di fatto un concreto crossing-over delle più disparate influenze musicali e delle relative sottoculture la cui risultante è di fatto notevole. I Transplants magari non hanno forse avuto un seguito e un successo degni di questo nome, ma sono comunque riusciti a coniare uno stile fortemente personale e di fatto non etichettabile; ciò, a conti fatti, vale probabilmente molto di più.
Per diverso tempo il loro disco non ha abbandonato né il mio lettore CD portatile né l’astuccio in cui portavo sempre appresso quelli che preferivo.
Le storie e le atmosfere evocate da quelle tracce hanno tutt’ora un forte effetto suggestionante su di me, proprio come allora. Oggi forse non mi sento più un reietto sociale che si muove in una città quieta, dormiente ed emarginante, ma all’ascolto del primo Transplants le immagini di quella realtà parallela e liminale che ho provato a descrivervi si liberano ancora in maniera immediata e spontanea.
E allora – spesso in un’amara e compressa solitudine – la lattina di birra da mezzo litro ritorna a bagnarmi le labbra mentre la testa si muove al ritmo del loro groove e della loro poetica urbana.
doc. NEMO
@twitTagli
[1] Vi basti pensare che, attraverso tale programma, si potevano scoprire i talenti emergenti o le novità di artisti quali – in ordine sparso – i Muse, Ben Harper, i Massive Attack, i Röyksopp, i System of a Down e via dicendo.
[2] Oppure, più facilmente, ve la ricorderete per il fatto di aver offerto la base musicale a una pubblicità della Garnier Fructis, sfruttando proprio quel semplicissimo giro.