A metà novembre a Gricignano di Aversa è stato sparato un colpo di pistola in bocca a un giovane gambiano, ospite di una struttura per richiedenti asilo. La vittima è, 19 anni. Il pistolero è Carmine Della Gatta, 43 anni, socio della cooperativa e coordinatore del centro per stranieri. Bobb è ancora in ospedale, è fuori pericolo ma non parla. Il signor Della Gatta, dopo un periodo di custodia cautelare in carcere, è oggi agli arresti domiciliari e indagato per tentato omicidio.
Ma cosa ha spinto il signor Della Gatta a sparare?
Dalle ricostruzioni emerge che all’interno del centro fosse in atto una rivolta: Bobb aveva appiccato il fuoco all’interno della sua stanza. Per questo il coordinatore del centro è stato allertato e si è presentato in struttura con una pistola: lì ad attenderlo c’era appunto il gambiano armato con una pietra.
E perché Bobb si stava rivoltando?
Da quanto dichiarato dagli amici di Bobb , i motivi sembrano essere più di uno. In primis la sua situazione sanitaria: Bobb era stato investito da un’auto e non era stato condotto in ospedale, nonostante lamentasse continuamente dolore alla spalla. Inoltre era stato malmenato dopo aver rifiutato di lavorare più ore nelle campagne con lo stesso compenso (15 euro). In seguito alle ferite riportate avrebbe chiesto insistentemente agli operatori del centro di essere visitato da un medico: richiesta vana. Gli altri motivi delle rivolta sono le condizioni della stanza (pare che Bobb dormisse su un materasso poggiato su un defecatoio), il pocket money (anche altri ospiti della struttura dichiarano di non riceverlo da tempo), lo sfruttamento del lavoro nelle campagne. Dulcis in fundo, sembra che Bobb volesse rientrare in Gambia, ma i gestori del centro gli avrebbero negato questa possibilità.
Ciò non giustifica l’incendio, ma è comprensibile che un essere umano sano di mente, sottoposto a tale pressione, tenti di ribellarsi. Forse il signor Alagiee non era nel pieno delle sue facoltà mentali? Può darsi. Anche questa non è una giustificazione, ma gli operatori del centro, il cui ruolo è quello di monitorare gli avvenimenti e seguire le persone nel loro progetto individuale, avrebbero dovuto quantomeno rendersene conto.
Chi avrebbe potuto accorgersi che Bobb oltre a un malessere fisico, stava sviluppando eventualmente un malessere psichico? La risposta è scontata: personale preparato e qualificato.
La struttura in questione era un CAS, cioè un centro di accoglienza straordinaria. Essendo appunto straordinario può essere aperto pressochè da chiunque sia in possesso di una struttura da mettere a disposizione della Prefettura. Il controllo del centro viene fatto prima dell’apertura, ma non c’è un controllo continuativo in itinere come avviene per le strutture ordinarie. Dunque il fatto che un centro sia idoneo al momento dell’apertura, non significa necessariamente che lo sarà per sempre.
Idem sulla questione cibo e pocket money: mentre nelle strutture ordinarie viene effettuata una rendicontazione minuziosa al Comune e dunque al Ministero dell’Interno, in quelle straordinarie non esiste questo tipo di controllo. È l’associazione o cooperativa che emette fattura alla Prefettura, ma non fornisce giustificativi di ciò che ha speso (per fortuna non tutte le Prefetture accettano la candidature di chiunque voglia aprire un CAS, ma richiedono dei requisiti minimi per ridurre il gap tra le strutture ordinarie e quelle straordinarie).
Chi può dunque affermare con certezza se il pocket money viene effettivamente corrisposto?
Se il cibo viene fornito adeguatamente?
Se i medicinali vengono somministrati?
Se viene svolto un lavoro di prevenzione, di monitoraggio all’interno della struttura?
Se la presa in carico delle persone avviene in modo puntuale e personalizzata?
Nessuno!
Continuerà a rimanere la parola dei richiedenti asilo contro quella dei gestori della struttura. Gestori che nei CAS sono a volte improvvisati: operatori senza esperienza con gli stranieri o nel settore sociale, coordinatori che fino al giorno prima erano imprenditori titolari di aziende edili, meccaniche, e chi più ne ha più ne metta (per fortuna non tutti i CAS hanno personale improvvisato).
I professionisti del settore sociale non andrebbero a gestire un momento di tensione, anche pericoloso, armati. Anzi cercherebbero di eliminare qualsiasi oggetto che potenzialmente potrebbe diventare arma (forbici, matite, sedie, etc.). Esattamente il contrario di ciò che è accaduto a Gricignano.
I professionisti del settore sociale non avrebbero lasciato degenerare la situazione di una persona dolente per un periodo così lungo: avrebbero giocato d’anticipo. Questa è la differenza tra chi si improvvisa e chi sa fare.
Quella dell’operatore sociale è una professione complessa che non si esaurisce in un unico professionista, ma prevede un lavoro di squadra fatto da psicologi, educatori, assistenti sociali e a volte anche personale medico o infermieristico. Servono preparazione, competenze traversali, capacità di gestione e di organizzazione. È un ruolo importante, che non può essere esercitato in modo superficiale e approssimativo.
Eleonora Ferraro