La particella maledetta, ovvero il Bosone di Higgs spiegato all’uomo qualunque

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Cos’è, credevate di imparare qualcosa di fisica teorica con un articoletto da duemila battute spazi inclusi? Non sarebbe stato un lavoro serio.
Quindi sì, questo pezzo di Luca è lungo, parecchio lungo. Ed è difficile. In tutto e per tutto, quello che segue è un testo scientifico. Ma paradossalmente è chiaro, semplice (ma non semplicistico) e didascalico – tanto è vero che io ho capito tutto, e io sono il tipico studente di liceo classico che nelle ore di matematica e fisica faceva aeroplanini di carta. 
Abbiamo già conosciuto Luca, l’autore,  in un ambito più ludico, attraverso la descrizione di due maghi del poker. Ora invece si fa sul serio: da laureato in fisica, Luca si è preso la briga di spiegare per filo e per segno che cosa significa davvero l’ultima scoperta del Cern di Ginevra, il famigerato “bosone di Higgs”.
Nella mail in cui mandava il pezzo, Luca scrive: “Ho letto alcune solenni bestialità sulla stampa generalista riguardo albosone di Higgs. Qui c’è una spiegazione su che cos’è e sul perché è tanto importante per la fisica. Temo però di aver esagerato, ho voluto essere più chiaro possibile e ho approcciato l’argomento dai fondamenti. Sentiti libero di tagliare, o di pubblicarlo a puntate, o di annoiare qualche lettore“.

Tagliare, non se ne parla. Le puntate, nemmeno. Del resto, è un po’ una mania degli anni 2000 credere che tutto si possa risolvere in quattro facciate di foglio protocollo. Esistono infatti argomenti seri, che meritano precisione in chi scrive e attenzione in chi legge. Per questo, anche se è un articolo corposo, lo lasciamo intatto: lo riempiamo di immagini – grandi – in modo che esse facciano da punto di riferimento nel caso si volesse interrompere la lettura. Ma non lo scorciamo. E vi invitiamo a mettervi alla prova: prendetela come sfida personale, quella di arrivare al fondo.
Lo lasciamo intatto anche un po’ come monito: diffidate di chi vi racconta cose complicatissime in quattro frasette. O è un incompetente, oppure sta cercando di prendervi per il naso.

Umberto Mangiardi 

 * 

La particella maledetta 

(ovvero, il Bosone di Higgs spiegato all’uomo qualunque)

Già, perché il suo nome originale è quello. La particella in questione, teorizzata nel 1963, è rimasta nota solo agli esperti del settore fino al 1993: quell’anno il fisico Leon Lederman pubblicò un libro divulgativo sulla fisica il cui titolo originariamente doveva essere “The Goddamn Particle: If the Universe Is the Answer, What Is the Question?” (“La particella maledetta: se l’universo è la risposta, qual è la domanda?”).
Al povero bosone di Higgs in quel momento veniva assegnato niente di meno che l’appellativo “maledetto”. Il titolo però venne censurato dalla casa editrice, che decise di ribattezzare il nostro bosone col pomposo nome di “God-Particle”.

La traduzione fedele di tale espressione nell’italico idioma sarebbe “particella-Dio”; tuttavia per motivi ignoti, da ricercare nell’ignoranza dei traduttori – o nell’eccesso di zelo di qualche giornalista (timoroso forse che identificare il Signore con una particella avrebbe potuto offendere qualche prelato in giro), in italiano il bosone è divenuto noto come“particella di Dio”.
Dal momento però che tale traduzione è sbagliata, oltre che un po’ offensiva nei confronti del povero Peter Higgs che è (ed è sempre stato) ateo, non utilizzerò tale denominazione.
Detto questo, lo scopo del mio articolo è di cercare di spiegare in un linguaggio comprensibile cos’è questa particella, e perché è tanto importante per la fisica. Spero i lettori sapranno perdonarmi eventuali esempi puerili (alla Pierluigi Bersani, per intenderci) o, al contrario, qualche tecnicismo eccessivo: purtroppo parlare di questo argomento in maniera sensata (lontano quindi dai sensazionalismi della stampa) e allo stesso tempo in maniera intelligibile a chi non è proprio abituato a formule che nelle aule universitarie occupano non meno di tre lavagne, è un’impresa piuttosto ardua.

Siete pronti? Un bel respiro e iniziamo.

 

Una nebulosa planetaria fotografata dal telescopio spaziale Hubble

Lo scopo principale della fisica è quello di descrivere le leggi della natura nel modo più generale possibile. Ovvero cercando di trovare leggi di portata sempre maggiore, che includano un sempre più ampio numero di fenomeni.
Un esempio di questo scopo nella storia della scienza è la teoria di Newton, che unificò i fenomeni di caduta dei gravi e quelli dei moti universali in un’unica teoria della gravitazione.
Successivamente Einstein sviluppò una teoria (quella della relatività ristretta) che incorporava le leggi Galileiane del moto e le equazioni di Maxwell che descrivono i fenomeni elettromagnetici. Lo stesso Einstein estendeva poi questa teoria ai moti non inerziali e ai fenomeni gravitazionali (relatività generale).

Al giorno d’oggi tutti i fenomeni dell’universo, sappiamo che sono frutto di quattro forze fondamentali: l’interazione forte, l’interazione debole, l’interazione elettromagnetica e l’interazione gravitazionale.

 

L’interazione gravitazionale al momento va considerata a parte rispetto alle altre tre, e per spiegarlo è sufficiente guardare alle semplici equazioni di base che abbiamo studiato al liceo: la costante di accoppiamento dell’interazione gravitazionale (quella G maiuscola che compare nella formuletta dell’equazione di Newton) è infatti estremamente piccola.

  • Infatti vale 6,673 × 10-11m3/(Kg∙s2), (si legge: sei virgola seicentosettantatré per dieci alla meno undicesima metri cubi su chilogrammi al secondo quadrato) e diventa incredibilmente piccola (dell’ordine di 10-39) se la consideriamo in unità naturali (ovvero, se al posto di misurare le cose in metri, kilogrammi e secondi, le misuriamo in termini di velocità della luce, costante di Planck e carica dell’elettrone).

Al contrario la costante di accoppiamento dell’interazione elettromagnetica, nota come Costante di struttura fine, in unità naturali vale circa 7,3∙10-3, quindi ci sono la bellezza di 36 ordini di grandezza di differenza.

 

Per capirci: se facessimo interagire due corpi entrambi di massa m=1 e di carica q=1, l’interazione elettromagnetica sarebbe un miliardo di miliardi di miliardi di miliardi di volte più forte dell’interazione gravitazionale.

Il succo della questione (e la diretta conseguenza delle due affermazioni precedenti) è questo: è praticamente impossibile che in un processo fisico dove sia coinvolta l’interazione elettromagnetica (e vale lo stesso per l’interazione forte e per quella debole), gli effetti gravitazionali siano importanti, e viceversa.

Gli effetti della gravità infatti si misurano su scale cosmiche, dove le altre interazioni vengono meno (atomi e molecole sono elettricamente neutri, anche se composti da particelle cariche), e dove la presenza di masse immense (la massa del Sole, ad esempio, vale 1,9∙1030 Kg) compensa il piccolo valore della costante di accoppiamento G.

 

 

Chiarito dunque che possiamo lasciare da parte l’interazione gravitazionale, ci concentriamo sulle altre tre forze: queste ultime, tutte e tre, agiscono a livello “fondamentale” sulle particelle elementari; infatti, a parte la forza elettromagnetica che ha anche effetti macroscopici (ben noti a tutti, basta giocare con due calamite), le altre interazioni avvengono ad un livello della materia che va ben più in profondità dell’atomo.

Negli ultimi 50 anni circa, la sfida della fisica è stata quella di unificare in un’unica teoria queste tre forze. Oggi l’ipotesi più accreditata è che le tre interazioni fondamentali siano in realtà delle “manifestazioni a bassa energia” di un’unica forza fondamentale.

Ovvero, che alla scala di energia alla quale facciamo le misure, noi percepiamo tre forze diverse, ma che ad energie molto più alte, che si avvicinino all’energia che aveva l’Universo pochi miliardesimi di secondo dopo il Big Bang, queste tre forze in realtà diventino una sola, e quindi che le tre costanti di accoppiamento tendano verso un valore unico quando l’energia diventa molto alta.

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Parte di questa ipotesi è già stata verificata: oggi è noto infatti che per lo meno l’interazione debole e quella elettromagnetica diventano un’unica interazione (interazione elettrodebole) ad energie superiori a 100 Giga-elettronvolt.

La dimostrazione sperimentale di questa unificazione la dobbiamo, tra gli altri, all’italiano Carlo Rubbia, che grazie ad essa ha ricevuto il premio Nobel per la fisica nel 1984.

Per dimostrare questa teoria occorre naturalmente studiare un sistema fisico ad energie sufficientemente elevate: per farlo la tecnica che si utilizza nei laboratori di fisica nucleare, consiste nell’accelerare a dismisura delle particelle (se sono cariche, è sufficiente metterle in un campo elettromagnetico), per poi farle “scontrare”.

Lo scontro (o, in termini tecnici, lo scattering) ovviamente non è un vero e proprio “urto”: le particelle non si “toccano” anche perché non occupano uno “spazio” nel senso comune del termine.

Vengono semplicemente spinte in una regione di spazio sufficientemente piccola da rendere massima la probabilità di un’interazione, che sia la più violenta possibile.

In queste interazioni si verificano una quantità enorme di fenomeni, legati a tutte e tre le forze fondamentali, compresa la creazione di un numero enorme di altre particelle – la maggior parte delle quali poi si annichilano tra di loro o decadono in particelle più stabili.

È tuttavia possibile rilevarle prima del loro decadimento o della loro annichilazione, ed è così che si cerca di scoprire la presenza di nuove particelle.

 

Eccolo qui, un altro protagonista della nostra storia: l’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra

Ora, complichiamo un po’ la situazione. La meccanica quantistica ci insegna che l’interazione elettromagnetica non avviene liberamente, ma è mediata da altre particelle.
Queste ultime sono i “quanti” della radiazione elettromagnetica, e si chiamano fotoni – qualcuno forse ne ha già sentito parlare.

Inoltre, alcune particelle possiedono una qualità intrinseca che le rende soggette all’interazione elettromagnetica, mentre altre non possiedono questa qualità (la qualità in questione è la carica elettrica).

Quando due particelle, entrambe dotate di carica elettrica, si trovano in una regione di spazio sufficientemente piccola, esse interagiscono tramite uno scambio di fotoni.

  • Ad esempio un elettrone quando viene catturato da un nucleo emette una radiazione elettromagnetica (fotoni), o viceversa, un elettrone può assorbire un fotone acquisendo energia sufficiente a sfuggire dal nucleo attorno al quale orbitava.

  • L’interazione forte e l’interazione debole funzionano in maniera analoga: esistono infatti dei “quanti” di interazione forte (che si chiamano gluoni, e ne esistono otto tipi) e dei “quanti” di interazione debole (le particelle W+, W eZ0). 

Possiamo così dividere la materia in due grandi categorie di particelle: le particelle che sono i costituenti fondamentali della materia, e le particelle mediatrici delle forze fondamentali.
La principale differenza tra queste due categorie risiede nel diverso comportamento delle particelle nello spazio delle fasi (che è una struttura matematica che per comodità sostituisce lo spazio tridimensionale classico nelle equazioni della meccanica quantistica): le particelle costituenti la materia non possono mai occupare la medesima regione di tale spazio, e pertanto si distribuiscono seguendo un modello statistico elaborato da Fermi e da Dirac, da cui il nome di fermioni.
Le particelle mediatrici delle forze fondamentali invece possono coesistere in una stessa regione di spazio delle fasi, e seguono la distribuzione statistica di Bose-Einstein, da cui il nome bosoni (ecco, ci siamo).

  • Per completezza, i fermioni si dividono in due sottocategorie (quark e i leptoni) e in tre famiglie.
  • Ogni famiglia comprende due quark (e i rispettivi anti-quark), un leptone carico (e la sua anti-particella) e unneutrino (col suo anti-neutrino).
  • I quark legandosi tra loro formano tutte le altre particelle conosciute, chiamate adroni: le particelle formate da una coppia quark-antiquark sono dette mesoni, mentre quelle formate da una terna di quark sono dette barioni.


Ok, lo ammetto, ho incasinato molto il tutto: un piccolo esempio chiarirà meglio (spero).

 

La prima famiglia (o generazione) di fermioni è composta dai quark Up e Down, dall’elettrone, e dal neutrino elettronico

I quark Up e Down, legandosi tramite l’interazione forte, danno vita a due possibili combinazioni  “a tre”, UUD e UDD: queste particelle altro non sono che i nostri cari vecchi protone e neutrone. Vi mancavano vero?

La prima famiglia fermionica costituisce quindi la materia per come la conosciamo alle scale di energia ordinarie: protoni, neutroni, elettroni e neutrini. Più qualche altro ospite (antiparticelle varie ed eventuali e loro combinazioni come i pioni), su cui possiamo simpaticamente sorvolare. 

Sorvoliamo anche sulle altre famiglie fermioniche, ci basti sapere che sono i costituenti della materia a scale di energia enormemente superiori, e torniamo ai bosoni.

 

Abbiamo detto che questi ultimi sono i mediatori delle forze fondamentali: i bosoni principali sono dunque:

  1. fotoni,
  2. le particelle W+, W e Z0, e…
  3. le otto varietà di gluoni.

fotoni sono i mediatori dell’interazione elettromagnetica, e agiscono tra particelle di qualunque tipo, purché dotate di carica elettrica.
Le particelle W+, W e Z0 sono le mediatrici della forza debole, e agiscono tra i quark, cambiandone il tipo (o, in termine tecnico il flavour, il sapore), ad esempio da Up a Down (i sei sapori sono Up, Down, Charme, Strange, Bottom, Top, cui vanno aggiunti sei anti-sapori). Il più noto fenomeno basato sull’interazione debole è quello dei decadimenti radioattivi (pensavate fossero solo seghe mentali eh? E invece…). 

Per finire i gluoni sono i mediatori della forza forte, e agiscono tra quark con diverso colore.

  • Il termine “colore” ovviamente non ha alcuna relazione con i colori che conosciamo noi, si è utilizzato questo termine in quanto la grandezza fisica in questione, la “carica” dell’interazione forte può assumere tre valori fondamentali, e la cosa è stata associata ai tre colori primari.

Fino ad ora non è mai stata osservata una particella “colorata”, il che ha portato a concludere che i quark si legano sempre in modo da formare uno stato di colore neutro. Il che naturalmente implica anche che non è possibile osservare quark isolati, liberi, un fenomeno noto come confinamento, e dal quale deriva lo stesso termine gluone(dall’inglese glue, colla).

 

Dai, dai, non mollate. Lo so che è difficile…

 

E la massa? Che cos’è la massa? Come mai alcune particelle sono dotate di questa proprietà ed altre no? Quale crudele destino ha decretato che tanti poveri mattoncini della realtà debbano essere per sempre condannati a viaggiare a velocità inferiore a quella della luce?

La massa non aveva una spiegazione, nella prima formulazione della teoria, ma c’è di peggio.

Il modello standard  (quello che ho sin qui descritto) prevedeva esplicitamente che i bosoni mediatori delle interazioni fondamentali dovessero essere particelle A MASSA NULLA.

Ora, i fotoni hanno massa nulla, e fino a qui nessun problema.
I gluoni non si sa se abbiano massa, visto che non è possibile osservarli liberi, ma ipotizziamo per un attimo che sia nulla anch’essa.

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Purtroppo i bosoni W+, W e Z0 non solo sono dotati di massa, ma è pure bella grossa (100 volte più grande di quella di un protone, per intenderci). Ed è un problemone.

Come far andare d’accordo una teoria che risultava estremamente efficace (tutte le particelle di cui ho parlato finora sono state correttamente previste dalla teoria e identificate sperimentalmente), con questo dato drammaticamente discordante?

La spiegazione che è stata data è estremamente complessa, e i suoi formalismi matematici non sono nemmeno materia di studio per i corsi universitari, vengono riservati ai dottorati, ma è possibile riassumerla molto semplicemente:

 

Siccome queste particelle hanno massa, e la nostra teoria prevede che non ce l’abbiano, supponiamo che ci sia un campo che permea tutto l’universo, che interagisce con la nostra teoria rompendo la simmetria che ci obbligava a dire che quelle particelle non dovevano avere massa: non dovrebbero averla, ma interagiscono con quel campo, e quindi ce l’hanno. Fine.

 

Tutto così semplice? Certo che no! Un campo che permea tutto l’universo ovviamente non si può introdurre alla cazzo di cane (è proprio linguaggio scientifico, lo usano anche ad Harvard).

 

I più scafati probabilmente han già scoperto dove si trova il punto cruciale: se un campo elettromagnetico agisce sulle particelle cariche tramite scambio di fotoni, questo campo misterioso, dovrà anche lui avere un suo proprio “quanto” tramite il quale interagire con le particelle, conferendo loro la massa.

 

Ed è qui che la nostra star fa il suo ingresso in passerella: il campo in questione si chiama “campo di Higgs”, e il suo “quanto” è proprio la goddamn particle.

 

Beh via, è solo la particella mediatrice di un campo che conferisce massa a tutte le particelle del cosmo, sarà mica importante?

Ok, mettiamo anche che sia così importante:  ma perché tanto tempo a trovarla?

Premettendo doverosamente che la faccenda è molto, molto più complicata di come l’ho descritta, anche questo si può spiegare in un linguaggio che non sembri uno scioglilingua.

 

I calcoli prevedevano inizialmente che il bosone di Higgs dovesse avere una massa compresa tra 100 e 180 GeV (Giga-elettronVolt: in fisica nucleare massa ed energia si misurano entrambe in elettronvolt, visto che in unità naturali la velocità della luce vale 1).

Abbiamo visto prima come si fa a “cercare” le particelle: facendo reagire due particelle qualsiasi in un acceleratore, dopo averle dotate di energia elevatissima. Abbiamo detto che in questo “urto” si generano migliaia e migliaia di altre particelle, molte delle quali instabili (ma che possono venire rilevate prima di decadere o di annichilarsi a vicenda).

 

Già, ma queste particelle che si generano, da dove nascono? Nascono dall’energia liberata nell’urto. La somma di tutte le masse e di tutte le energie cinetiche (mica si generano particelle ferme) di tutte le particelle che si sono create dopo l’urto deve essere uguale all’energia cinetica delle due particelle-proiettili sparate una contro l’altra all’inizio. Quindi, una particella con una massa superiore a 100 GeV dovrà nascere da un urto che avviene come minimo a 100 GeV.

(se avete resistito fin qui, adesso è tutta discesa,
stiamo arrivando al punto)

Ma il povero bosone di Higgs non si crea da solo, fa parte delle migliaia di particelle che si creano in quel femtosecondo di interazione. E poi, sono fenomeni soggetti ad oscillazioni quantistiche, avvengono con una data probabilità; e ammesso che avvenga, anche la rilevazione avviene con un’efficacia statistica piuttosto bassa.

 

Morale della favola: per sperare di osservare una particella di massa pari a 100 GeV, occorre sparare contro due proiettili a energie di svariati TeV (Tera-elettronVolt) e sperare di rilevarla. 

Solamente, nel 2010 sono iniziati gli esperimenti che avevano delle possibilità concrete di rivelare la particella maledetta, grazie al nuovo acceleratore di particelle LHC (Large Hadron Collider… adesso sapete tutti cosa vuol dire Hadron, vero? Adrone, una particella subatomica soggetta all’interazione forte) del CERN (Centro Europeo per la Ricerca Nucleare) di Ginevra.

 

I primi risultati si sono già avuti alcuni anni fa, ma prima di annunciarli si è atteso di avere un livello di confidenza che escludesse qualunque errore dovuto a fluttuazioni quantistiche.

La scoperta, annunciata in questi giorni ha un livello di confidenza del 99.99994%, anche se comunque gli scienziati si mantengono prudenti. 

Bene, e ora cosa ce ne facciamo del giocattolino che sta sotto Ginevra? Ovvero: sviluppi futuri.

 

Il Cern di Ginevra

Avete presente quando vi ho detto che si è già dimostrato che l’interazione elettromagnetica e quella debole, sopra i 100 GeV diventano un’unica interazione?

  • (infatti a tale energia i bosoni W+, W e Z0 non interagiscono più col bosone di Higgs, quindi perdono la loro massa e il fotone si identifica col bosone Z0: fantastico vero?)
Come già detto prima, l’idea è che, a scale di energia ancora maggiori, anche l’interazione forte possa venire identificata all’interno di una forza fondamentale unica, e gli esperimenti proseguono in tal senso.

 

E la gravità, che avevamo lasciato da parte all’inizio? Beh, esiste una possibilità anche per lei, sebbene remota.

Esiste infatti una scala di valori in cui tutte le costanti di accoppiamento possono giocare un ruolo fondamentale, ed è nota come scala di Planck. Si tratta di una scala di valori dove in un tempo e uno spazio infinitamente piccoli viene concentrata una massa piuttosto grande.

Più precisamente, se immaginassimo di:

  1. confinare in uno spazio dell’ordine dei 10-35 metri (cento miliardi di miliardi di volte più piccolo del raggio di un protone);
  2. in un tempo dell’ordine di 10-44 secondi (in cui la luce percorrerebbe proprio lo spazio di cui al punto uno);
  3. una massa dell’ordine delle decine di microgrammi (ovvero di circa dieci miliardi di miliardi di protoni)…

otterremmo una situazione dove tutte le quattro forze giocherebbero un ruolo fondamentale. E tutto dovrebbe funzionare come un orologio, tutte le teorie si incastrerebbero alla perfezione. Sarebbe un momento di commovente bellezza per la scienza umana.

 

Ipoteticamente, a questa scala di energia anche la gravità potrebbe unificarsi con le altre tre forze. Disgraziatamente, questo corrisponderebbe a portare della materia ad una densità di 1096 Kg/m3 (un milione di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi), e ad una temperatura di 1032 K (centomila miliardi di miliardi di miliardi di gradi).

In poche parole, ricreare le condizioni dell’universo nell’istante del Big Bang, che è qualcosa che la nostra tecnologia è ancora lontana dal fare.

 

Luca Romano
@twitTagli

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