
Siamo giunti alla decima puntata di questa rubrica.
Ho quindi deciso di “festeggiare” proponendovi uno dei miei brani preferiti in assoluto: si tratta della Sonata Op.111 di Ludwig van Beethoven, l’ultima sonata che compose.
Quest’opera splendida, ma molto complessa, appartiene all’ultimo periodo beethoveniano, e come le sue opere coeve (le Sonate op.106, 109, 110, la Missa Solemnis, gli ultimi quartetti d’archi e la Nona Sinfonia), è praticamente impossibile trovarle una collocazione all’interno dei canoni di un’epoca.
Con l’eccezione della Nona sinfonia, celeberrima anche ai giorni nostri, tutte le altre opere di quel periodo non vennero adeguatamente apprezzate dal pubblico del tempo: alcuni critici iniziarono maliziosamente a sostenere che Beethoven, a causa della sordità oramai totale, non fosse più in grado di capire quello che faceva.
Lo stesso Beethoven d’altronde era conscio che le sue opere erano oltre l’orecchio dei suoi contemporanei: quando terminò di comporre la sonata op.106, detta “Hammerklavier” per il fatto che era stata composta esplicitamente per il pianoforte (e non per gli altri strumenti a tastiera ancora diffusi all’epoca, come il clavicembalo), il compositore la commentò dicendo: “Ecco una sonata che darà filo da torcere ai pianisti, quando la eseguiranno tra 50 anni“.
La verità è che considerare le opere dell’ultimo periodo beethoveniano “avanti” rispetto all’epoca in cui furono composte è riduttivo: Beethoven non era avanti rispetto al suo tempo, era fuori dal tempo.
Le armonie, i temi, l’esplorazione musicale contenute in quelle opere non hanno eco in nessuno dei periodi artistici successivi della storia della musica: è pur vero che alcune scuole di critica hanno tentato di ricondurre alcuni stili musicali alla sperimentazione del tardo Beethoven, ad esempio la stessa Sonata 111 contiene fraseggi e ritmi che vennero poi ripresi dalla nascita del Jazz, ma si tratta spesso di forzature.
La lettura, a mio avviso, più corretta, è che Beethoven ha compiuto la musica dei periodi che lo precedettero, transustanziandola in qualcosa di oltre: dopo Beethoven la musica non era più la stessa cosa, e tutti i compositori successivi hanno dovuto fare i conti con questo.
In filosofia, dopo Hegel e Kant si è avuta una sostanziale morte della metafisica: nella musica, dopo Beethoven si sono avuti il declino e la scomparsa delle forme musicali precedenti.
Al di là di alcune pregevoli eccezioni nei periodi successivi, che però rimangono anacronismi, la stagione storica della Sonata per pianoforte termina con la 111: nei trilli finali, la sonata ascende verso il cielo, verso quel Dio che Beethoven amava e odiava, perché “mi urla la sua musica nella testa, e mi vieta di sentirla”, per non fare più ritorno.
Ecco a voi dunque, l’ultima sonata.
La semicroma del giorno
(ovvero: una rapida, rapidissima curiosità musicale)
La Sonata opera 111 di Ludwig van Beethoven ha avuto una splendida celebrazione letteraria all’interno del Doktor Faustus di Thomas Mann. Per chi amasse Mann, la letteratura tedesca, o Beethoven, mi sento di riportare il brano di testo ad essa dedicato, buona lettura.
Nonostante l’originalità e persino la mostruosità del linguaggio formale, il rapporto tra l’ultimo Beethoven, quello, diciamo, delle cinque ultime sonate per pianoforte, e il mondo convenzionale era un rapporto bel diverso, molto più lasco e docile. […]
In queste composizioni, diceva l’oratore, gli elementi soggettivi e la convenzione combinavano un nuovo rapporto, un rapporto caratterizzato dalla morte. […] Dove la grandezza e la morte s’incontrano, dichiarò, nasce un’oggettività favorevole alla convenzione, una oggettività che per spirito sovrano precorre di molto il più dispotico soggettivismo, perché la personalità esclusiva, che pure è già stata il superamento di una tradizione portata fino alla vetta, sopravanza ancora una volta se stessa entrando grande e spettrale nel regno del mito, della collettività. […]
Sotto questa luce, continuò a dire, andava considerata l’opera della quale parlava in particolare, la sonata 111. Poi sedette al pianino e ci suonò a memoria tutta la composizione, il primo e il formidabile secondo tempo, inserendovi continuamente i commenti e accompagnandola qua e là col canto entusiastico dimostrativo per farci ben notare la linea. […]
Nello stesso tempo ci esponeva con spirito caustico la motivazione data dal maestro stesso per aver rinunciato a un terzo tempo in corrispondenza col primo. Interrogato in proposito dal domestico, Beethoven aveva risposto che non aveva avuto tempo, e perciò aveva preferito allungare un pochino la seconda parte.
Non aveva avuto tempo! E con “calma” l’aveva detto. Evidentemente il disprezzo contenuto in quella riposta era passato inosservato, ma era giustificato dalla domanda.
Ritornato nel tardo autunno a Vienna da Mödling dove aveva passato l’estate, il maestro si era messo a ascrivere di seguito quelle tre composizioni per pianoforte senza neanche, per così dire, alzare gli occhi dalla carta rigata, e ne aveva dato l’annuncio al suo mecenate, il conte Brunswick, per rassicurarlo circa le proprie condizioni di mente.
Poi Kretzschmar parlò della sonata in do minore che certo non è facile da capire come opera armonica e spiritualmente ordinata, e che tanto per la critica contemporanea quanto per gli amici aveva costituito un arduo problema estetico: tant’è vero, diceva, che amici e ammiratori, incapaci di seguire il venerato maestro oltre alle vette alle quali nel periodo della maturità aveva portato la sinfonia e la sonata per pianoforte e il classico quartetto d’archi, di fronte alle opere dell’ultimo periodo si erano trovati con la pena nel cuore come davanti a un processo di dissoluzione e di abbandono del terreno noto, sicuro e familiare: davanti appunto a un plus ultra, nel quale sapevano scorgere solo una degenerazione di tendenze che il maestro perseguiva con un eccesso di speculazione, con minuziosità e scienza musicale esagerate — talora in una materia semplice come il tema dell’Arietta, svolto in quelle formidabili variazioni che formano il secondo tempo della sonata.
E come il tema di questo tempo, attraverso cento destini, cento mondi di contrasti ritmici, finisce col perdersi in altitudini vertiginose che si potrebbero chiamare trascendenti o astratte — così l’arte di Beethoven aveva superato se stessa: dalle regioni abitabili e tradizionali si era sollevata, davanti agli occhi sbigottiti degli uomini, nelle sfere della pura personalità — a un io dolorosamente isolato nell’assoluto, escluso anche, causa la sordità, dal mondo sensibile: sovrano solitario d’un regno spirituale dal quale erano partiti brividi rimasti oscuri persino ai più devoti del suo tempo, e nei cui terrificanti messaggi i contemporanei avevano saputo raccapezzarsi solo per istanti, solo per eccezione.
Infine posò le mani in grembo, riposò un istante, disse: — Adesso viene il bello — e incominciò il tempo con variazioni “Adagio molto, semplice e cantabile”.
Il tema dell’Arietta, destinato a subire avventure e peripezie per le quali nella sua idillica innocenza proprio non sembra nato, si annuncia subito e si esprime in sedici battute riducibili a un motivo che si presenta alla fine della prima metà, simile a un richiamo breve e pieno di sentimento — tre sole note: una croma, una semicroma e una semiminima puntata che si possono scandire come “Pu-ro ciel” oppure “Dol-ce amor” oppure “Tem-po fu” oppure “Wie-sengrund”: e questo è tutto.
Il successivo svolgimento ritmico-armonico-contrappuntistico di questa dolce enunciazione, di questa frase malinconicamente tranquilla, le benedizioni e le condanne che il maestro le impone, le oscurità e le chiarità eccessive, le sfere cristalline nelle quali la precipita e alle quali la innalza, mentre gelo e calore, estasi e pace sono una cosa sola: tutto ciò potrà dirsi prolisso o magari strano e grandiosamente eccessivo, senza che per questo se ne sia trovata la definizione, poiché, a guardar bene essa è indefinibile.
Volto verso di noi, rimase seduto sullo sgabello girevole, nello stesso nostro atteggiamento, chino in avanti, le mani fra le ginocchia, e conchiuse con poche parole la conferenza sul quesito: perché Beethoven non abbia aggiunto un terzo tempo all’op. 111.
Dopo avere udito, disse, tutta la sonata potevamo rispondere da soli a questa domanda. — Un terzo tempo? Una nuova ripresa… dopo questo addio? Un ritorno… dopo questo commiato? — Impossibile.
Tutto era fatto: nel secondo tempo, in questo tempo enorme la sonata aveva raggiunto la fine, la fine senza ritorno.
E se diceva “la sonata” non alludeva soltanto a questa, alla sonata in do minore, ma intendeva la sonata in genere come forma artistica tradizionale: qui terminava la sonata, qui essa aveva compiuto la sua missione, toccato la meta oltre la quale non era possibile andare, qui annullava se stessa e prendeva commiato — quel cenno d’addio nel motivo re-sol sol, confortato melodicamente dal do diesis, era un addio anche in questo senso, un addio grande come l’intera composizione, il commiato dalla Sonata.”
Luca Romano
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