[leggi la prima puntata] [leggi la seconda puntata]
In questa terza puntata avrei dovuto parlare di padri e figli, di affetto e generatività nel campo della sinistra italiana.
La riunione romana della sinistra PD del 21 marzo mi ha confermato che sarebbe stato giusto dedicare la puntata a quel rapporto. Ho pensato però che sarebbe stato meglio lasciar decantare il tema: troppe reazioni scomposte da parte delle varie tifoserie e troppe banalità psicanalitiche. Dunque, siccome in tutta quella discussione sono stati tirati in ballo gli anni Novanta del Novecento, come se la storia iniziasse con il PDS o i DS (meglio per molti farla iniziare con i DS, dal momento che il PDS portava ancora i segni dell’ultimo grande, serio e profondo scontro nella sinistra italiana), ho pensato di togliermi la soddisfazione di parlare dei nonni, lasciando però da parte le solite banalità edipiche.
Sì, voglio parlare della svolta, della fine del PCI, per dire che Ingrao, Magri e Tortorella avevano ragione, che il loro ragionamento politico, la loro lettura del mondo (non tanto e non solo di quello passato, ma proprio di quello che si stava profilando) era giusta, così come fu sbagliata, però, la reazione di quelli che abbandonarono il gorgo. La mia disamina non sarà per nulla esaustiva. Sull’argomento della fine del PCI vi sono volumi di grande importanza che ognuno di noi può consultare. Qualcosa però voglio dire per aggiungere degli elementi alla discussione che rimane monca se ci si ferma sempre e solo agli anni Novanta, e anche un po’ provinciale se mi permettete.
Mi preme anzitutto sottolineare che uno degli elementi del dibattito congressuale nel 1990 e 1991 (congressi di Bologna e Rimini che sancirono la fine del PCI) fu la convinzione che ormai il capitalismo era stato civilizzato, che la socialdemocrazia aveva vinto sia addomesticando il capitale sia dimostrando la propria superiorità sul comunismo, come del resto l’Ottantanove stava ad ammonire. In quell’argomentazione, le opposizioni alla svolta segnalarono due problemi. Prima di tutto, dissero che il capitale non era stato addomesticato una volta per tutte e che reaganismo e thatcherismo erano proprio il segno della ristrutturazione capitalistica che a partire dalla fine degli anni Settanta era stata in grado di rispondere alla crisi del compromesso tra capitale e lavoro (sovraccarico, inflazione, crisi fiscale dello Stato, mancata risposta alla richiesta di liberazione del lavoro) grazie a uno straordinario attacco politico-culturale ai fondamenti di quel compromesso.
Tale lettura degli innovatori fu così miope da far dimenticare che a partire dalla fine degli anni Settanta il grande capitale si stava riorganizzando anche e soprattutto dal punto di vista della battaglia per l’egemonia culturale e per la penetrazione nell’immaginario dei ceti popolari, grazie ai consumi e alle profusione continua e sistematica sui media e nel mondo accademico della retorica antipolitica per accreditare centralità della tecnica, delle leggi dell’economia capitalistica e di una sorta di “buon senso” basato sull’efficienza, il merito e il successo e non più sulla battaglia delle idee. Chi si oppose alla svolta ricordò agli innovatori ottimisti che tempo libero, consumismo e immaginario postmoderno stavano cominciando a essere vincenti a partire dagli anni Ottanta proprio fra i ceti popolari, strutturando un immaginario di realizzazione del sé che vedeva nei consumi quell’elemento di identità e possibilità di esprimere la propria creatività personale che il movimento operaio non era stato in grado di ottenere nel lavoro con la sua sola preoccupazione per la redistribuzione del reddito e per l’efficienza del sistema produttivo.
Il secondo elemento critico, in quella lettura così ottimistica del mondo e dell’Italia post-Ottantanove, stava nell’equazione che voleva la fine del comunismo sovietico come fine e azzeramento della riflessione su quello italiano, senza che si analizzasse appunto il suo significato nella storia del paese, proprio perché il PCI aveva deciso di non essere leninista e di essere un partito fortemente radicato nella storia d’Italia (grazie all’assillo gramsciano e togliattiano per la compenetrazione di classe e nazione). Insomma, la maggioranza occhettiana accolse la tesi superficiale e giornalistica per la quale, siccome partiti dell’Est e partito italiano condividevano il riferimento Marx, allora erano inevitabilmente accomunati dalla tara del totalitarismo. A causa di quella stupida equazione, fu espunto dal dibattito il tema del rapporto tra PCI e storia d’Italia. Ora, non è questo il luogo per approfondire un tale discorso, ma il non aver considerato che il marxismo italiano – come tutto quello occidentale e con la specificità ulteriore del gramscismo e dell’eredità dell’idealismo italiano – non era la stessa cosa di quello orientale – cioè materialismo dialettico e niente di più – fece sì che la sinistra italiana rimase senza storia e con un grande partito trasformatosi in partito radicale e moralista di massa, senza più alcuna ambizione di produrre cultura e funzione nazionale. Un terzo del paese rimase dunque senza i luoghi della produzione culturale, di una visione del paese e dell’incontro comunitario, ormai preda dell’americanismo, del consumismo (e povero Berlinguer che invece aveva capito benissimo il pericolo con il suo ragionamento sull’austerità) e della retorica sulla fine della storia.
E tutto questo accade nel momento in cui il capitale stava appunto dispiegando la sua offensiva egemonica politico-culturale per conquistare il cuore, la mente e l’immaginario dei ceti popolari, tramite una sorta di gramscismo alla rovescia a uso dei dominanti.
Vi è un ultimo tassello del discorso che impose la fine del PCI, anch’esso contestato pur se con scarso successo. Parlo dell’affermazione della laicità della politica che, da quel momento, non avrebbe dovuto più porsi il problema della liberazione e dell’integrazione dell’uomo nella società o, per dirla in termini psicanalitici, del rapporto tra psiche e società.
Si procedette a un’ennesima facile equazione, quella per cui totalizzante sarebbe uguale a totalitario. Peraltro, già da alcuni anni, soprattutto nelle pagine delle pubblicazioni del gruppo editoriale L’Espresso – ancora oggi in prima fila nella polemica antipartitica –, si accusava il PCI di essere una chiesa, di non essere cioè aperto e laico, ma portatore di una visione ideologica del mondo, e quindi incapace di interpretare i cambiamenti della società. La soluzione stava nell’abbandonare l’ambizione alla salvezza e alla liberazione dei subalterni per essere in grado di risolvere i problemi concreti della cosiddetta gente, abbandonando i vecchi riti e l’opprimente fedeltà a un credo ideologico che non affascinava più nessuno, dal momento che nella società postmoderna ognuno sceglieva valori e progetti di vita nel privato, al riparo da occhiuti controlli religiosi o politico-ideologici.
Il mondo cominciò a essere descritto come unificato e pacificato dall’universalismo dei diritti umani; la caduta dei muri avrebbe significato la fine delle guerre e l’addomesticamento del capitale si sarebbe perpetuato grazie alla forza del diritto. Fu una grande illusione che dimenticava che il diritto inteso come regole del gioco non rimuove solo la sostanza degli effettivi rapporti di forza, ma rende anche liscio e piatto il mondo, senza autorità simboliche che ne decidano limiti, significati, visioni. Tutto si faceva contratto, regola e, in un colpo solo, il neoliberalismo spazzò via l’analisi critica dei rapporti di forza e il bisogno di un soggetto terzo che ponesse la questione dell’umano, come essere che non può vivere in un mondo privo di simboli, pieno solo di oggetti e regole contrattuali per usufruirne. Ecco, i lavoratori non consideravono più il lavoro come medium tra Soggetto e Oggetto, i borghesi non avevano più bisogno dello Stato per riconoscersi oltre i loro egoismi, poiché il mondo era trasparente e a disposizione nella sua globalità, e gli intellettuali poterono tornare a produrre opere consolatorie fra disincanto e affidamento ai piaceri, fra continua interpretazione e giochi di parole per la delizia tutta privata del proprio spirito.
Il popolo non serviva più come collettore di energia e indicatore di una pietà in grado di interpretare il mondo e di amarlo con riverenza e senso del limite. Il mondo era a portata di mano e i suoi gadget proteiformi fornivano l’energia vitale. L’intellettuale, l’artista, tornava a ripiegarsi su se stesso perché il mondo non aveva più bisogno di essere interpretato e il pensiero si riduceva a psicologismo, introspezione e analisi delle cause che sottostanno agli effetti che si producono nella propria vita individuale e familiare. Il mondo era dunque liscio, trasparente, increspato solo da corruzione e mancanza di rispetto dei diritti scritti sulle carte. La sinistra non sentiva più il bisogno dell’energia popolare che riesce a pensare il mondo come mistero, come limite, come insieme di forze terribili di fronte alle quali produrre riti, tradizioni, legame sociale, pietà. La profezia di Pasolini era compiuta: il mondo industrializzato è un immenso campo dove tutto è possibile, manipolabile, a portata di mano. Cielo e terra non si nominano più e non hanno più bisogno di pensieri che li tengano in comunicazione. Non sono più necessari racconti, riti di fondazione, eroi popolari, messaggeri sciamani tra cielo e terra, produttori di simboli. Tutto diventa liscia superficie da mettere in valore che, paradossalmente, smette di valere.
C’è un documento famoso che può fare da commento a tutto questo. Si tratta della famosa esortazione a “cercare ancora” pronunciata da Claudio Napoleoni alla fine di una riunione di parlamentari del PCI nel 1988. Claudio Napoleoni tenne un intervento in risposta alla relazione tenuta da Alfredo Reichlin.
Napoleoni intervenne per replicare a Reichlin, il quale aveva articolato la sua introduzione su due livelli. Il primo, in cui si sottolineava l’inefficienza globale del sistema, cioè il fatto che accanto ad un sistema di imprese che progredisce sul terreno della produttività, vi era, tuttavia, un sistema economico-sociale complessivo che introduceva gravi elementi di inefficienza, di ritardo e, quindi, impediva all’economia italiana di affrontare la nuova soglia della competitività internazionale, tenendo compressi i salari e portando ad un sistema iniquo di redistribuzione del reddito. Insomma, una serie di problemi che – secondo Reichlin – andavano affrontati con l’esatto contrario della deregulation in voga in quegli anni Ottanta, cioè con la ripresa e la riqualificazione seria della politica di programmazione di stampo keynesiano. Il secondo livello del discorso di Reichlin faceva riferimento al problema delle “nuove alienazioni, cioè il piano in cui Reichlin riprendeva la tematica dell’inclusione dell’uomo moderno all’interno di meccanismi che lo dominano, ne espropriano l’autonomia – nel capitalismo così come nel socialismo realizzato -, ne fanno l’elemento di una macchina.
Napoleoni riteneva innanzitutto che quei due piani – tenuti insieme da Reichlin nella sua relazione – andavano invece distinti perché «noi potremmo avere un sistema in cui il problema dell’efficienza globale del sistema sia sostanzialmente risolto o avviato a soluzione e, tuttavia, tutti i problemi attinenti al secondo piano siano ugualmente presenti con la stessa, medesima forza». Inoltre – e questo è il punto fondamentale per Napoleoni – i due problemi non potevano essere risolti assieme, dal momento che per risolvere i problemi del secondo livello affrontato dalla relazione – quello delle cosiddette nuove alienazioni – «dovremmo rivedere totalmente i criteri di soluzione del primo ordine di problemi». E vediamo la spiegazione di Napoleoni a questo proposito: «In realtà il maggiore sviluppo quantitativo, il raggiungere traguardi determinati sul terreno della competitività internazionale, significa rafforzare tutte le tendenze negative del sistema che si svolgono su quello che io, per intenderci, ho chiamato il secondo piano del discorso». Insomma, per Napoleoni non era possibile risolvere contemporaneamente il problema di una maggiore quantità di crescita e di una modifica della qualità dello sviluppo.
E qui veniamo ad uno dei due momenti principali dell’intervento di Napoleoni. Egli fece riferimento alla relazione di Reichlin che metteva in rilievo come la società odierna sia frantumata, tanto da poter dire che non esiste più la tradizionale struttura di classe (come vedete di queste cose già si parlava venticinque anni fa, ma non solo, anche molto prima. Questo lo dico per tutti i fautori dell’anno zero della sinistra, che non sarebbe in grado di leggere la società). Nel mettere in evidenza ciò, Reichlin notava allo stesso tempo come a fronte di tale frantumazione stava la grande concentrazione del potere economico nelle mani di alcuni pochi grandi gruppi. Per Napoleoni, erano vere entrambe le cose, ma «ciò che si contrappone alla frantumazione sociale non è tanto la concentrazione del potere economico e sociale in certi gruppi, ma il fatto che questa frantumazione avviene, invece, all’interno di un’unità, giacché questi uomini frantumati, queste persone che ormai appartengono non più a classi definite ad infinite categorie, sono in realtà unificati da un’accentuazione, da un approfondimento, da una particolarizzazione, ma certamente da un aggravamento di una vecchia, antica alienazione che è tipica, è propria della società e del sistema capitalistico». «Allora – continuava Napoleoni – l’elemento riunificatore sul terreno politico non è tanto la lotta alla concentrazione del potere economico, quanto l’assumere il problema dell’unificazione nell’alienazione di quella che appare in maniera immediata e sociologica come la frantumazione sociale». (Ricordo tra parentesi che, a questo punto, Napoleoni fa riferimento a un libretto di Bertinotti – La camera dei lavori – definito molto importante in quanto «tentativo di rifondare il concetto di confederalità sul terreno sindacale proprio nella percezione di questa unità profonda nella quale convengono “soggetti” che altrimenti appaiono frantumati». Questo per dire che la sinistra italiana non era così arretrata, arrivata impreparata all’analisi della frantumazione sociale). Notiamo comunque che, per Napoleoni, accettare la realtà della frantumazione sociale non significava una ragione di moderatismo politico – come avviene oggi, sia nel PD sia in tanti ragionamenti che si fanno a sinistra –, bensì uno spostamento ulteriore a sinistra del ragionamento, fino alla questione dell’alienazione.
Ebbene, a questo punto Napoleoni rilevava come da anni la sinistra e il PCI avevano smesso di ragionare sul fatto che il capitalismo è un sistema storico che, così come ha avuto un inizio, può avere anche una fine. E aveva smesso dal momento che non era in grado di definire, se non in termini negativi, cosa significasse uscita dal capitalismo. Per Napoleoni, vi sarebbero state invece le condizioni per definire anche in termini positivi l’uscita dal capitalismo. E ne enunciava tre fondamentali:
1) Il progresso tecnologico gigantesco che rende possibile finalizzare in modo concreto alla liberazione dal lavoro che – secondo Napoleoni – era la stessa cosa della liberazione del lavoro, dal momento che la liberazione del lavoro, cioè la restituzione di umanità al lavoro, può avvenire soltanto all’interno di un processo di liberazione dal lavoro, cioè in cui il lavoro non sia piu l’asse centrale della vita dell’uomo e della società».
2) La seconda questione è quella femminile, a dire però che in essa non si tratta della liberazione della donna, ma della liberazione di tutti gli uomini: «quella femminile è la questione di una ridefinizione totale del rapporto quantitativo tra tempo di produzione e tempo di riproduzione e della distribuzione di questi due tempi su entrambi i sessi, affinché venga meno la divisione sessuale del lavoro. Ma tale questione comporta un problema di orari di lavoro, comporta perciò una certa finalizzazione del progresso tecnico, comporta la fine, in altri termini, dello sviluppo industriale come termine di paragone per ogni e qualsiasi sviluppo».
3) Infine, la questione della natura, che non è quella dell’ambiente: «la questione della natura – precisa Napoleoni – è un’altra cosa, è il riconoscimento che nel momento in cui l’uomo si riappropria della sua umanità cessa di considerarsi come il soggetto destinato al dominio del mondo. Questo è il punto che noi dobbiamo affermare, questo è il punto che la sinistra deve affermare, questo è il punto, in altri termini, che fa uscire la questione ambientale dal romanticismo, dal vagheggiamento della campagna bella nei confronti della campagna trasformata dall’intervento dell’uomo.
Queste tre questioni configuravano, per Napoleoni, l’uscita dal capitalismo e, come tali, andavano assunte al centro di un’elaborazione programmatica. Vi leggo le conclusioni di Napoleoni: «Io vi chiedo: se non si trattasse di affrontare questioni di questo tipo, questioni che mettono in discussione il modello di sviluppo attuale, non per fare un altro modello di sviluppo, ma per fare un altro modello che non è più di sviluppo, ma è di un’ altra cosa, se non affrontassimo tali questioni io, compagni del partito comunista, vi chiedo: perché non cambiate nome, perché vi chiamate ancora partito comunista? Se la linea è quella che Salvati descrive su Micro-Mega, cambiamo nome e facciamolo il più presto possibile». Bene, davvero profetico, a meno di due anni dalla Bolognina.
Che dire, ora che il capitale ha continuato a combattere la lotta di classe a fronte di chi pensava di averlo già addomesticato, ora che le guerre non sono state fermate dai diritti umani, ora che l’universalismo giuridico non s’è imposto sulla realtà dei rapporti di forza, ora che progetti di vita liberi e diritti civili non bastano a tenere assieme una nazione (figuriamoci una sovranazione come l’Europa), ora che i consumi sono ciò che struttura l’identità di milioni di subalterni molto più di qualsiasi patriottismo costituzionale?
Che dire… Avevano ragione i nonni e io ho l’età per essere loro figlio e sono felice di aver imparato tanto da loro.
Claudio Bazzocchi
@twitTagli
[leggi la prima puntata] [leggi la seconda puntata]