Quanto descritto in questo articolo di ieri sarebbe il redde rationem definitivo, la sfida all’OK Corral, il duello finale. I problemi, di fronte a tale ipotesi, sono tantissimi: in primo luogo, svuoterebbe di significato 10 anni di storia. Che senso avrebbe, a questo punto, la malsopportata convivenza decennale per tornare a essere DS invecchiati da una parte e Margherita sotto steroidi renziani dall’altra?
Già solo per questo motivo, il responsabile della scissione coprirebbe di ridicolo sé e tutto il periodo di vita del PD.
Inoltre, c’è la responsabilità politica: chi si incaricherà di dimostrare, per la terza volta in 20 anni, che una sinistra unita in Italia è impossibile? La conseguenza di questo terzo strappo, dopo i due subiti da Prodi, sarebbe consegnare il Paese allo squalo di turno: ieri Berlusconi, domani chi lo sa.
Insomma, la scelta degli scissionisti ricadrebbe nella proverbiale autoevirazione per fare un dispetto alla moglie: non vai a governare, ma uccidi Renzi.
Renzi ha scientificamente centrato uno dei punti più sensibili della coscienza democratica italiana: peraltro, sensibile da sempre. La spregiudicata mazzata data al sistema-lavoro con le prime avvisaglie del Jobs Act (con tanto di sprezzante delega in bianco chiesta al Parlamento per il decreto legislativo delegato in questione) è talmente grossa che sembra sia stata concepita per dividere, per provocare una risposta.
La sinistra non poteva non darla. Renzi ha scelto di portare lo scontro lì, scientemente. Quella che appariva (e per certi versi è) una semplice battaglia di potere per la guida dell’unico partito superstite nel panorama nazionale si è incancrenita in battaglia ideologica.
Non poteva andare diversamente: se la CGIL fa passare il Jobs Act senza stracciarsi le vesti in piazza, si delegittima da sola, e allora tanto vale per lei chiudere i battenti.
A questo punto la palla è passata alla minoranza PD: tradire la CGIL e lasciar delegittimare il governo dal proprio elettorato oppure fare la figura degli schizofrenici che da una parte votano sì e dall’altra contestano quello che votano?
Bisogna infatti chiedersi: se Fassina e Cuperlo non fossero scesi in piazza, quale sarebbe stato il significato della piazza? Quel milione di persone sarebbero state contro il governo, senza se e senza ma. Invece la manifestazione, almeno per i fedelissimi dell’Apparato, ha avuto tutto un altro taglio: la presa di posizione di importanti esponenti del PD ha ricondotto il baccano nell’alveo di una più o meno credibile “dialettica democratica”. O almeno, questo è quello che si è provato a far credere. È indubbio che l’occasione sia stata una prova di forza muscolare funzionale anche ad un riposizionamento personale dei vari leader del Partito Democratico; ma è altrettanto vero che a Roma non c’erano solo elettori di SEL e metalmeccanici nerboruti.
Si è provato, insomma, a dare un colpo al cerchio ed uno alla botte. Ma in una situazione di grandissima tensione sociale il gioco rischia di sfuggire di mano.
Il problema vero che ha Renzi – ma che ha soprattutto la sinistra moderata – è il suo modo di fare, il suo continuo dividi et impera che radicalizza lo scontro a sinistra. Un radicalismo che nell’Italia di oggi è forte perché c’è tanto scontento. Il rischio che l’11% o più di cui parlavamo ieri vada ad una sinistra radicale guidata da Landini non è da escludere.
Ma non abbiamo una legge elettorale in cui un partitino con l’11% lo fai tacere e basta: il proporzionale che risulta dall’opera di machete della Corte Costituzionale garantirebbe sì l’11% di Landini, ma altrettanto a Salvini, e poi un 15-20 a Grillo più le macerie di Berlusconi. Un parlamento frammentato, ancora più di adesso perché le forze sarebbero sostanzialmente equivalenti: sembrava un’impresa impossibile.
Ricucire, adesso, è difficilissimo. Con grande dispiacere dei militanti di sinistra riformista più genuini, una volta che la comunità-PD viene sfasciata diventa impossibile da ricostruire: lo zoccolo duro dei militanti si basa ancora sul concetto di partito/chiesa, compagni che rischierebbero le botte pur di tenere aperto il proprio circolo. Ma se il circolo viene dissacrato e la propria “chiesa” profanata, non c’è verso di riportare questi vecchi affezionati in una nuova congregazione.
E infatti c’è stato un momento che persino Renzi ha dovuto coccolarsi questa caratteristica: quando si è reso conto che il valore aggiunto del PD nei confronti di Grillo era il fatto di avere il partito strutturato.
La luna di miele, se mai è iniziata, è finita presto: con le folate di questi giorni, è perfettamente logico che la minoranza abbia smesso di essere riottosa per iniziare ad essere belligerante.
C’è stata una evidente lotta di potere, con una fazione che ha perso questa lotta di potere: se al dolore della sconfitta si sommano gli svantaggi pratici del non amministrare più (con tutto quel che ne consegue) e quel dato identitario, quasi religioso, si ha il quadro completo dell’umore del partito.
C’è un vero conflitto: tra una trascendenza laica da una parte ed un disinvolto pragmatismo dall’altra. Chi, militante vecchia scuola, ha la convinzione di agire per un qualcosa di assoluto, reagisce male di fronte alle intemerate renziane che in nome della funzionalità stracciano qualunque tabù, anche il più ancestrale. Il punto del discorso, per i veterodemocratici, è che un eretico è diventato Papa.
Ad ogni modo, non è un caso che Renzi abbia parlato in questi giorni turbolenti di un prossimo “Partito della Nazione”. Tradotto in parole semplici, significa: “CGIL, Cuperlo, fate un po’ quel che volete, fate il vostro partito di sinistra; a quel punto io faccio il mio, che non si chiamerà di Centro Sinistra, ma della Nazione. Poi vediamo chi vince“.
È un rischio enorme per la sinistra, enorme. Anche perché azzererebbe tutti i progressi in senso maggioritario che sono stati fatti nei dieci anni di cui parlavamo a inizio articolo: sul palco della Leopolda hanno parlato Migliore e subito dopo Andrea Romano, l’uomo di Sel e quello di Monti, che fino a un mese fa si lanciavano strali (questo potrebbe dire molto sulla credibilità personale di molti personaggi, ma è un discorso che ci porterebbe lontano e che a un certo punto ci imporrebbe di nominare Capezzone: troppo, per le nostre capacità di sopportazione).
E sarà pur vero che Migliore e Romano non hanno voti, ma al massimo li cercano; tuttavia è altrettanto assodato che Renzi esercita un fascino enorme sugli elettorati più disparati: intercetta il presidente del circolo ANPI di Firenze, le resdore della D’Urso, gli ex forzisti e forse perfino gli attuali.
Liberatosi dell’ingombrante carcassa di “sinistra” sinistra (il primo aggettivo, il secondo sostantivo), potrebbe non subire contraccolpi devastanti, ma tramutarsi nell’asso pigliatutto. A meno che gli italiani non riconfermino il loro essere banderuole, capaci di scaricare Renzi fra due mesi se la crisi non termina – al pari di un Letta o di un Monti qualunque.
Finora una minoranza irrequieta ma pavida come quella del PD attuale ha fatto comodo a Renzi, e in senso assoluto potrebbe fargli comodo a lungo. Per paura di perdere la poltrona o chissà cos’altro, i vari Civati & co. ci hanno pensato mille volte prima di buttare giù Renzi. Intanto Renzi ha governato, con la possibilità di prendersi i meriti se le cose andavano bene e di scaricare sulla minoranza le colpe se le cose andavano male.
Il tutto senza contare il fattore-N, e cioè Giorgio Napolitano: se si va a elezioni con questa legge elettorale, il Presidente della Repubblica può fare il gesto di dimettersi dall’alto dei suoi 90 anni e dire “Bene figlioli, adesso sono fatti vostri“.
A questo punto, la campagna elettorale varrà moltissimo: sarà tesa a prendersi Parlamento, Governo, nuovo Presidente della Repubblica e – già che ci siamo, se a Roma non mettono fine alla pagliacciata dell’elezione dei giudici della Consulta – pure i membri della Corte Costituzionale.
Una prospettiva tremenda: questo ingorgo istituzionale spaventerebbe molto i moderati, che andrebbero sul meno scalmanato di tutti. Toh, quello con l’accento toscano.
Redazione Tagli
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