E’ sufficiente che i giornali sbattano in prima pagina l’ennesimo caso di violenza sulle donne e, repentina, esplode quella cloaca intellettuale che teorizza la necessità di un reato di femminicidio. Dimostrazione ulteriore, qualora se ne sentisse ancora la necessità, del fatto che lo sport nazionale è diventato cavalcare i borbottii della pancia e offrire al popolino la gogna mediatica quotidiana.
Un reato di femminicidio, oltre a costituire un caso di immotivata genuflessione dello Stato alla massa latrante, sarebbe anche giuridicamente un obbrobrio. Il problema dell’Italia e del suo ordinamento giuridico non è l’assenza di leggi, è semmai la mancata applicazione di quelle (tante, spesso troppe) già esistenti.
Perché un reato di femminicidio sarebbe un aborto giuridico? La risposta è semplice, perché nel nostro ordinamento l’omicidio è già punito e una fattispecie di femminicidio costituirebbe soltanto una variazione sul tema foriera soltanto di confusione.
L’omicidio punisce l’uccisione di un essere umano in quanto tale, nel rispetto del diritto alla vita e all’incolumità fisica, sanciti dalla nostra Costituzione e puniti, come fattispecie di reato “naturali”, da tutti gli ordinamenti giuridici, anche quelli meno evoluti. Così come il genocidio punisce lo sterminio di un genere o di una razza.
E allora che cosa punirebbe il femminicidio? L’omicidio di una donna in quanto tale. Non in quanto compagna, partner che lascia il proprio marito/fidanzato. E perché l’omicidio di un uomo (da parte di un altro uomo o di una donna) dovrebbe essere meno importante di quello di una donna? Se si introducesse il reato di femminicidio con esso si introdurrebbe una disuguaglianza inaccettabile tra generi dinanzi alla legge. Disuguaglianza che la Corte Costituzionale finirebbe poi per elidere facendo riferimento all’articolo 3 della Costituzione.
Un omicidio resta sempre un omicidio, sia la vittima un uomo o una donna, cambiano soltanto le circostanze nelle quali, per usare un linguaggio giuridico, si verifica l’ “evento morte”. Circostanze che possono essere definite aggravanti o attenuanti e che incidono sull’entità della pena finale. Nemmeno la previsione di un’aggravante per il delitto passionale avrebbe un senso per i motivi di cui sopra.
Qualcuno potrebbe anche obiettare che esiste un’emergenza tale da richiedere una legge speciale, sulla falsariga di quello che accadde negli Anni di Piombo con la legislazione di emergenza per contrastare il terrorismo o leggi ad hoc come nel caso dell’escalation della mafia tra gli anni 80 e 90. Non sfuggirà nemmeno al più ideologizzato dei sostenitori della moratoria sul femminicidio che le proporzioni sono ampiamente diverse. Negli anni ’70, a fronte di omicidi e attentati continui, occorreva distinguere il semplice omicidio dall’omicidio politico o a sfondo eversivo. Lo stesso vale per le leggi di mafia.
Per quanto riguarda il femminicidio e la violenza sulle donne i numeri non autorizzano a ricorrere all’introduzione di una nuova fattispecie di reato. Numeri che tra l’altro sono in calo rispetto ad alcuni anni fa, particolare cautamente sottaciuto dai sostenitori di questa curiosa legge.
Alla base del femminicidio vi sono problemi culturali ed educativi che non si combattono certamente con un inasprimento delle leggi (almeno fino a che le statistiche e la constatazione empirica non ci dovessero dire che il fenomeno è così dilagante da richiedere una forte repressione), né con l’introduzione di fattispecie di reato nuove e fantasiose. Converrebbe invece smetterla di considerare soltanto un aspetto del fenomeno e giungere ad un ragionamento complessivo su un argomento che coinvolge il ruolo della donna nella società, l’immagine che della donna viene veicolata ma soprattutto il rispetto che ad una donna è dovuto, non tanto e non solo in quanto donna ma in quanto essere umano.
Alessandro Porro