La vendetta punita: il caso Reyhaneh nell’Iran di Rohani

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Primo pomeriggio. Semaforo rosso. Alla mia destra, il fianco sinistro di un pullman ospita lo slogan deciso di una campagna realizzata l’anno scorso dal Dipartimento per le Pari Opportunità contro la violenza sulle donne. “Hai un solo modo per cambiare un fidanzato violento. Cambiare fidanzato”.
È la seconda volta della giornata in cui il mio cervello viene colpito dal tema. La prima è stata poche ore prima quando la radio in macchina mi ha aggiornato sulla tappa finale del caso Reyhaneh Jabbari. La ragazza iraniana di 26 anni condannata a morte per aver ucciso l’autore di un’aggressione sessuale ai suoi danni, ha vissuto un calvario durato sette anni fatto di sentenze continuamente rimandate, di processi sommari, di mobilitazioni internazionali, e pagine Facebook a sostegno della sua amnistia.
È stata impiccata la mattina del 25 Ottobre.

Il suo caso, però, non avrebbe potuto essere prevenuto nemmeno dal Dipartimento per le Pari Opportunità. Il problema vero di Reyhaneh infatti non è stato né quello di avere avuto un fidanzato violento, né quello di essere stata la vittima di un tentativo di stupro. Il problema vero di Reyhaneh è stato quello di essere stata la vittima audace di un tentativo di stupro, tanto audace da accoltellare alla schiena il suo aggressore prima di riuscire a darsi alla fuga. Il problema di Reyhaneh è stato poi quello di denunciare subito il fatto alle autorità iraniane, prima ancora di scoprire che il suo predatore divenuto preda fosse un ex impiegato dell’intelligence iraniana.

Il pregio di Reyhaneh è stato quello di rifiutarsi sempre e comunque di cambiare la sua versione dei fatti, la realtà vista dai suoi occhi e vissuta dal suo corpo. Reyhaneh non ha mai ceduto all’invitante possibilità di amnistia che la legge iraniana le avrebbe concesso, nel caso avesse accettato di riabilitare la memoria della vittima, ritrattando l’accusa di violenza nei suoi confronti.
L’errore di Reyhaneh – all’epoca coraggiosa giovane diciannovenne sotto shock – è stato quello di credere nelle sue istituzioni, dimenticandosi che esse costituiscono l’ossatura di un Paese fortemente conservatore, scarsamente tollerante nei confronti degli omicidi, specie se commessi da donne, e impregnato di religione al punto da rendere gli omicidi punibili seguendo la shari’a – e cioè tramite la pena capitale.

Reyhaneh è infatti soltanto una delle vittime quotidiane del braccio della morte iraniano, la 382esima da quando il presidente Rohani è salito al potere il 4 Giugno 2013, ma anche una delle poche a essere riuscita a creare attorno alla propria vicenda un caso mediatico tanto vasto da suscitare pressioni dai piani alti della politica internazionale, del giornalismo e del cinema, con firme e petizioni che spesso ed erroneamente ci hanno fatto credere in un lieto fine.

L’happy ending è riuscita invece a ottenerlo in marzo Sakineh Mohammadi-Ashtiani, anche lei iraniana, accusata di adulterio e di aver partecipato assieme all’amante all’omicidio del marito nel 2005, condannata alla lapidazione nel 2006.
La lapidazione, poi commutata in impiccagione, è stata sospesa nel 2010 e questo 19 marzo, dopo un calvario durato nove anni in cui sono stati orditi complotti e ricatti di ogni genere ai suoi avvocati, Sakineh Mohammadi-Ashtiani è stata liberata per buona condotta.
Come lei, Meriam Ishag, classe ’87, dottoressa sudanese, figlia di madre cristiana di cui ha sempre seguito la fede.
Condannata a morte nel maggio 2014 con l’accusa di apostasia e adulterio (vocabolo d’impatto che cela il banale fatto di aver sposato un non musulmano come lei), è stata però rilasciata nel giugno 2014.
Dopo essere stata incarcerata all’ottavo mese di gravidanza, frustata e costretta a partorire in carcere in condizioni disumane, anche per lei le pressioni internazionali e chissà quale altro repentino o conveniente cambio di opinione sono stati un salvagente dal braccio della morte, una porta verso la libertà.

Anche per Reyhaneh tanti salvagenti son stati buttati in mare, ma la corrente e le onde del suo Iran li hanno tutti spinti lontano da lei, lasciandola sola e colpevole di un crimine che l’Iran raramente perdona, e su cui anzi preferisce ergersi come giudice severo, distogliendo l’attenzione dal fulcro della questione: lo stupro di cui Reyhaneh stava per essere la vittima.
All’alba del 25 Ottobre, poco prima della chiamata alla preghiera del mattino, Reyhaneh è stata impiccata. Un mese esatto prima della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.

Elle Ti
@twitTagli

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