Quella che vedete nella foto qui sotto è ovviamente di una scemenza: tale dichiarazione è del tutto priva di valore giuridico, cita riferimenti normativi insensati ed è perfettamente inutile.
Il discorso sarà un po’ complicato, perché è un discorso giuridico, ma proviamo a renderlo comprensibile per chiunque: andiamo per gradi.
Nel momento in cui ci si iscrive a Facebook, si sottoscrivono le famose “Condizioni di utilizzo“, famose perché non le legge mai nessuno. Le quali dicono che:
– Qualunque contenuto caricato su Facebook è e resta di proprietà dell’utente. L’utente ne regola la diffusione tramite le impostazioni sulla privacy (punto 2 dei Legal Terms di Facebook, da ora LTF).
– Contemporaneamente, però, qualunque contenuto caricato su Facebook può essere utilizzato da Facebook, come gli pare e piace. L’utente (sempre punto 2 LTF) condividendo concede una licenza “libera da royalty e valida in tutto il mondo, per l’utilizzo di qualsiasi Contenuto IP pubblicato su Facebook (…). La Licenza IP termina nel momento in cui l’utente elimina il suo account o i Contenuti IP presenti sul suo account“.
Dunque, l’unico modo per impedire a Facebook l’utilizzo di dati, status, immagini e scritti è rimuoverli dalla fonte, e cioè dal proprio profilo. È assurdo strepitare in un proprio status che “il mio consenso scritto è necessaria in ogni momento!”: il consenso scritto è già stato dato, acconsentendo alle condizioni d’uso.
– Su Facebook (punto 3. LTF) è vietato “raccogliere contenuti o informazioni degli utenti (…) usando strumenti automatizzati (…) senza previa autorizzazione“.
Quindi vuol dire che tutto questo si può fare, anche da parte o per conto di società che svolgono indagini di mercato: basta che questa società ottenga l’autorizzazione da Facebook.
Tutto ciò, in realtà, non rappresenta un problema: se una persona “condivide” (è il verbo che lo stesso Facebook ha imposto culturalmente, sviluppando una sostanziale nuova accezione del termine), mette a disposizione di terzi informazioni su di sé. È lui il responsabile della diffusione dei dati suoi e propri: se ciò non gli aggrada, può sempre non condividere – o non iscriversi a Facebook.
– Il punto 14 LTF dice che, anche in caso di modifica delle condizioni, “L’uso ininterrotto di Facebook (…) costituisce l’accettazione implicita delle condizioni modificate“.
Il silenzio-assenso: un istituto giuridico perfettamente lecito.
– Le dispute (punto 16 LTF) vedono come tribunale competente “una corte statale o federale situata a Santa Clara County”, dunque soggetta alla legge degli Stati Uniti.
Inoltre, al sottopunto 3, Facebook si libera della cosiddetta responsabilità oggettiva: “Facebook non è responsabile delle azioni, dei contenuti, delle informazioni o dei dati di terze parti, pertanto noi (…) siamo sollevati da qualsiasi reclamo o danno, noto o sconosciuto”.
Facebook è in una botte di ferro, a prescindere dal fatto che si pubblichi o non si pubblichi quella dichiarazione. Non bastasse, il punto 19 LTF mette la pietra tombale al discorso: “La presente Dichiarazione costituisce il contratto tra le parti su Facebook (…); qualsiasi modifica o rinuncia alla presente Dichiarazione deve essere effettuata per iscritto e firmata da noi“.
La sottoscrizione delle clausole di utilizzo indica l’accettazione di queste clausole: non c’è dichiarazione che tenga; se questa politica di Facebook non è più accettata dall’utente, costui ha un rimedio: cancellarsi dal social network azzurro. Niente di più, niente di meno, soprattutto niente di diverso.
Per quanto riguarda le leggi citate (ora si ride):
1) La Convenzione Berner non esiste.
2) Quella sfilza di lettere e numeri (UCC 1 1-308-308 1-103) non è un codice a barre: è un riferimento (ortograficamente scorretto) al Codice Uniforme di Commercio, una legge americana.
Non sono un comparatista, ma tale legge dovrebbe essere applicabile solo nel caso in cui un soggetto decidesse di fare causa a Facebook: un caso molto improbabile, dato che le clausole di utilizzo consentono sostanzialmente a Facebook di fare il bello e il cattivo tempo finché l’utente ne utilizza il sito.
L’articolo 1-103 (Disciplina dell’UCC per promuovere i suoi obiettivi e norme:
Applicabilità dei principi supplementari di diritto) dice – vedi testo originale sotto – che “L’UCC deve essere liberamente interpretato ed applicato per promuovere i suoi scopi e le politiche sottostanti“.
E questo va bene: in sostanza questo articolo dice che l’UCC può essere interpretato liberamente; ma non stravolto! Se un soggetto accetta determinate condizioni pur di accedere a Facebook, la responsabilità è del soggetto, non del social network.
L’articolo 1-308 sembra dare ragione alla bufala: “Una parte che opera, offre prestazioni o acconsente prestazioni in presenza di esplicita riserva non pregiudica in questo modo i diritti riservati. È sufficiente utilizzare parole come “fatte salve”, “sotto protesta”, o simili”.
Peccato che il comma immediatamente successivo aggiunga: “Il comma (a) non si applica agli accordi“. E la sottoscrizione delle clausole di utilizzo di Facebook è in tutto e per tutto un accordo.
3) Ma la cosa più bella e pirotecnica è il riferimento allo Statuto di Roma (senza indicarne la data, che sarebbe quella del 17 luglio 1998): lo Statuto di Roma è un atto di diritto internazionale che istituisce la Corte Penale Internazionale dell’Aia.
Un tribunale a tutti gli effetti, che però ha incombenze un pochino più serie del giudicare un social network che diffonde o non diffonde le foto in costume da bagno: la CPI si occupa di genocidi, stermini di massa, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Lasciamola lavorare in pace, senza affibbiarle strampalate competenze in materia di privacy individuale tramite declamazioni pseudopubbliche abbastanza ridicole.
Umberto Mangiardi
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