La dura vita del ciclista torinese

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La dura vita del ciclista torinese è scandita da diverse fasi. L’automobilista che dal punto A voglia andare al punto B deve salire in auto, mettere in moto, uscire dal parcheggio e raggiungere il punto B. 
Per il ciclista che voglia fare lo stesso, invece, è necessario prima di tutto porsi una domanda. Una di quelle serie, profonde, che scavano nel proprio io e rasentano i progetti sul proprio futuro. Il ciclista torinese deve innanzitutto chiedersi : “voglio essere prudente e arrivare incolume al punto B o accetto di mettere a rischio la mia vita?

Il ciclista torinese che sceglie la prima risposta è quello saggio e proiettato verso il futuro; è quello che già immagina un lavoro, una famiglia, due cani e le vacanze nei villaggi Val Tour.
Ma la seconda fase della sua dura vita lo attende dietro l’angolo. Un’altra domanda da farsi. E dove diavolo la trovo una pista ciclabile pratica che mi permetta di andare fino a B?
Sì, perchè per quanto io mi senta grata per le piste ciclabili costruite negli ultimi anni, a Torino non ce ne sono comunque abbastanza e tra quelle già esistenti alcune lasciano davvero desiderare.

Per carità, è vero, ci sono quelle rialzate come in Corso Vinzaglio – che poi diventa Corso Duca, belle, circondate da alberi, protette dalla corsia delle auto, ti fanno sentire in una bolla di sicurezza, ti rendono tranquillo, spensierato e ti spingono persino a fischiettare, a cantare “Ma il cielo è sempre più bluuuuuu nananana”,  e a sentirti trascinato in qualche ameno set cinematografico irlandese.
Ma poi ci sono le piste ciclabili infami. Come quella di via Verdi che ogni giorno mi porta all’ Università o quella di corso Francia. Definirle “piste ciclabili” è a mio avviso un eufemismo.
Qualcuno si è preso la briga di usare un Uni Posca colorato per tracciare una linea divisoria tanto spessa quanto utile. I camioncini bianchi delle consegne ci parcheggiano sopra senza esitazioni e a nulla serve usare la formula dell’insulto, della polemica, o quella del teletrasporto.
Il camioncino bianco resta lì, e il ciclista è costretto a deviare il suo percorso unendosi alle auto da pascolo che lo fiancheggiano.

E non stupitevi se poi qualche automobilista userà il clacson per rimproverare la vostra invasione nel suo campo, o se abbasserà il finestrino urlandovi “Ohu ma non l’hai vista la pista ciclabile alla tua destra?!?”.
Cercate di trattenere le grida, cercate di mantenere un contegno e limitarvi all’elegante, signorile e discreto dito medio.
Pensare di prendergli il faccione arrossato tra le mani e di spiaccicarglielo sul vetro del camioncino bianco è inutile: il tempo di scendere dalla bici tentando un inseguimento e lui se ne sarà già andato lasciandovi immersi nella sua bolla di gas di scarico.

Il fatto che poi alcune piste ciclabili siano semplicemente ricavate dalla traccia di Uni Posca su una strada già esistente, spiega anche perchè, a causa anche dell’asfalto e delle pietre smussate, il duro percorso del ciclista torinese possa spesso tradursi in una pedalata al trotto in cui si salta ogni secondo e – a meno che non possediate una mountain bike degna di quella verde Pininfarina che davano con i punti Esso anni fa- si sente la propria city-bike di cinquantesima mano fare rumori stranissimi ogni dosso.
Rumori che , almeno nel mio caso, a volte sono talmente fastidiosi e inevitabili da portare i pedoni a fianco a me a voltarsi stupiti chiedendosi se stia arrivando un percussionista cubano o se sia soltanto il solito Godzilla dalle manie distruttive. 
Anche il quel caso consiglio contegno, un sorriso rilassato e un “È solo la mia bici, tranquilli”, per finire il tutto.

E il secondo tipo di ciclista torinese? Quello che, per intenderci, impavido come Indiana Jones non si cura delle piste ciclabili e gli basta andare da A a B nel minor tempo possibile? Lui è il mio preferito.
È coraggioso, ma anche fuorilegge. Un miscuglio tra Ethan Hunt di Mission Impossible e Robin Hood che se ne frega delle tasse imposte dal Re Giovanni.
Il ciclista torinese di questo tipo è quello che sale sui marciapiedi, pedala sotto i portici, il tutto alla velocità di Valentino Rossi, non preoccupandosi delle signore di mezz’età che sussultano quando lo sentono dietro di loro; a lui non importa di sfiorare con i pedali i cappotti dei pedoni, né di frenare a due centimetri da loro: questo tipo di ciclista urbano assomiglia di più a un tracciatore, così sono chiamati i praticanti di parkour, perchè per lui nulla è importante quanto arrivare alla meta.

Il tipo di percorso non è importante. Il colore di un semaforo nemmeno. Il fatto di mettere a repentaglio migliaia di vite umane e di fare pericolose “rasatine” a Mini Cooper e 500 fiammanti ancora meno del “nemmeno”. Conosce i rischi del mestiere e li affronta ogni giorno.
Sa come sia la “dura vita del meno prudente ciclista torinese” e non gli basta. La vuole rendere ancora più faticosa.

Elle Ti
@twitTagli

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