Ci sono cose nella vita che è opportuno tenersi stretti e cose invece che bisogna trovare il coraggio di buttare: può sembrare un’ovvietà, ma non è roba da poco, credetemi. Armato di questo monito, stamani mi sono messo a ripulire quel porcile indicibile che è camera mia in quest’ultimo periodo (caratterizzato da disordini mentali ancor più che alimentari). Ho eliminato tutte quelle cose che alla veneranda età di ventuno roboanti anni sarebbero comunemente definibili col termine anglosassone “socially awkward”.
La pulizia, tra un amarcord e l’altro (identificabili in un fazzoletto snasato di almeno 11 anni e i resti di una penna verde esplosami in mano nell’agosto del 1999 per il gran caldo), arriva all’angolo dei dischi. E lì rinvengo questo.
Meccanicamente lo prendo, lo spolvero e lo appoggio vicino al lettore cd, consapevole che se c’è una cosa di cui non potrò mai liberarmi è il mio passato da infognatissimo e accanito supporter della cultura Hip Hop.
La mia storia parla chiarissimo: a 11 anni fissato con la breakdance; a 12 con le rime; a 14 coi graffiti; infine a 16 – complici alcune amicizie liceali – con tutte e tre assieme (sebbene poi per alterne vicende mi sia ritirato da tutte, restando soltanto un fine intenditore della “colonna sonora” di questo stile di vita). Ed è proprio in qualità di supporter di vecchia data che vorrei applicare dei distinguo e analizzare i più blasonati e pidocchiosi luoghi comuni che affliggono il movimento.
(ATTENZIONE: io considererò solo la componente musicale del movimento, per cui non tacciate queste righe d’articolo di parzialità o incompletezza: per ciò che riguarda gli altri aspetti giuro che ne parlerò in differente sede).
Partiamo subito con una separazione sostanziale: rap e Hip Hop NON sono la stessa cosa. È inutile che cerchiate di smentirmi guardando i generi musicali che avete segnato sul vostro strafottuto iPod: questa dovete prenderla e metterla in saccoccia. Non la sapevate? Rassegnatevi. E ora che ne siete consci potete andare a sboronare il concetto ai vostri amici: passerete per intenditori gagliardi.
L’Hip Hop è solo lo stile, il rap un genere musicale. Non ci arrivate? Vi faccio un esempio: l’ultimo Nesli, il Jovanotti dei primi anni, FloRida, Usher ed Entics fanno rap perché il loro genere musicale è inequivocabilmente quello; ma tuttavia non possono dirsi artisti Hip Hop, perché il loro stile è completamente diverso (sebbene alcuni di questi abbiano avuto un passato di quel tipo).
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Nas, Bassi Maestro, Hopsin, Eminem, Dr Dre, Noyz Narcos, Mezzosangue e Common (giusto per citarne alcuni) sono a tutti gli effetti rapper e artisti Hip Hop. Tutto chiaro? Domande? Lei, là in fondo con la mano alzata? Chi? MORENO? Passiamo oltre per Dio.
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Ora, mentre finite di prendere appunti, ditemi la prima espressione che vi viene in mente quando dico Hip Hop. Mi ci gioco le mutande, avete detto “Yo, fratello!”. E vi siete attirati il mio odio. L’immagine del rapper ormai è talmente stereotipata che persino mia madre, quando metto su qualcosa di KrsOne, si affaccia alla porta della mia stanza e per prendermi in giro fa su e giù con la testa (con uno sguardo che manco Diprè mentre intervistava Katalin Fazekas) e va a ritmo tenendo il tempo col braccio in alto. E quando si stufa mi dice “La spegni stammerda? Che a me sta gente che fa yo yo mi manda in ansia!“.
CVD.
Io dico che è una roba ereditaria. Già mia nonna materna, buon’anima, quando aveva intuito di che pasta stavo diventando, mi staccava la radio e mi sequestrava i fantastici bootleg che collezionavo (rigorosamente su cassetta con registrazioni prese dalle radio marce, o arrivate a me grazie a fratelli di amici). Mi diceva: “Questi parlano male, prendono la droga e sono delinquenti, se non la smetti di sentirli ce lo dico a tuo papà. E adesso spostati dalla radio che voglio sentirmi Baglioni“.
Io, che ancora temevo mio padre quasi quanto le foche temono gli orsi polari, me ne andavo per riprendere eventualmente l’ascolto durante il suo sonnellino, armato delle mie gioiose cuffiette Grundig. Ebbene: se mia nonna fosse mai riuscita a farmi andare oltre la traccia 2 di quella maledetta cassetta (una Maxell XLII che ancora conservo) avrebbe sentito ben altre cose, decisamente meno aggressive.
Io (dopo “Eh Beh” dei Sottotono e “Ce n’è” degli OTR) ci avevo registrato “Foto di gruppo” di Bassi Maestro. Non credo avrebbe apprezzato, ma forse si sarebbe tolta di testa quel clichè del cazzo del rapper come “perenne drogato e scontroso con tutti” – che ancora adesso circola come vera nel 90% dei casi grazie agli “intenditori di musica” del piccolo schermo. E mi rivolgo ai Lester Bangs , ai Carlo Emilio Gadda di domani e ai novelli critici musicali strafalliti che, forti della presunzione che regala l’adolescenza, credono di aver già capito il senso di una canzone al minuto 0.23 (non ridete, io sono stato uno di questi prima di capire che era un atteggiamento da stronzi). Avete crocifisso un’arte con la vostra idiozia, siatene consci.
Agli ascoltatori atavici del genere invece chiedo: ma anche voi vi sentite sporchi nell’anima quando vi giunge all’orecchio una di quelle pubblicità alla radio orrende e trash oltremisura dove per fare presa sui ‘ggiovani iniziano a usare neologismi agghiaccianti e a sparare rime a caso (e per giunta pure brutte) sul prodotto che devono vendere? Fottute agenzie pubblicitarie: i nostri insulti sono la pena per aver messo nel vostro libro paga tutti i cugini menomati di Alemanno e Borghezio (e averli messi nel ramo creativo).
Comunque: far sentire a me uno di quegli spot è un po’ come andare da una coppia gay e gridargli in faccia “A voi i bambini non bisogna darli che poi li fate diventare ricchioni pure a loro!“. Come dite? È inopportuno, ignorante e di cattivo gusto? Avete capito al volo. L’idea del giovane “ribbbbbbelle” che fa il bullo del quartiere e parla peggio che un paninaro anni ’80 è stata superata da un po’. Ma allora come diavolo è che, con le tante sfaccettature offerte dai vari sottogeneri, spunta sempre fuori quella dello “spacco dibbrutto fratello”? E dire che di ‘sti tempi il rap fa sempre più introspezione e tratta temi che trascendono dal “Minchia boh” degli ultimi Club Dogo… va beh, lo so che è inutile, lascio perdere.
Mi sento un pompiere all’inferno: la situazione è più grande di me. Certe immagini e certi stereotipi restano e resteranno sempre incagliati nelle menti, a mo’ di Costa Concordia sui lidi del Giglio. O, se preferite, a mo’ di prezzemolo tra incisivo e canino, che quanto a imbarazzo forse rende anche meglio l’idea.
Riccardo “Cook” Cardone