Egitto, quattro anni dopo: le stranezze di una pacificazione lontana

egitto2.jpeg

“La rivoluzione deve continuare”, dicono in molti egiziani. “Non è finita, è come quella francese, un discorso da estendere su più generazioni”. Così si cerca di spiegare la storia del nuovo Egitto a chi è solito vedere nel termine “rivoluzione” un piatto fatto e finito da consumare in pochi giorni. 
Quell’Egitto il cui vagito sono le urla di rabbia, di gioia, di passione e di speranza di Piazza Tahir il 25 Gennaio 2011. Quell’Egitto a cui, dopo trent’anni ininterrotti di Moubarak, servono poco più di due settimane per liberarsene. 
E poco importa se il “faraone” si dimena in televisione ricordando i sacrifici fatti per la Nazione; poco importa se promette di non ricandidarsi per la quinta volta alle elezioni presidenziali; e poco importa che il faraone assicuri di non piazzare il figliolo Gamal come candidato. 
Al nuovo Egitto non importa nulla: è tempo di cambiare. 
Così, ecco l’Egitto dei Fratelli Musulmani: prima alle elezioni legislative tra il 2011 e il 2012, con la vittoria del loro partito —  il Partito della Libertà e della Giustizia, PLJ —, poi alle elezioni presidenziali di giugno con la vittoria di Morsi. 
Ma quest’ultimo diventa in un solo anno l’emblema delle scelte sbagliate. 

I “te l’avevo detto” tra gli egiziani non sono tanti, perché tanti sono stati quelli che l’hanno eletto l’anno prima; ma i “che diavolo abbiamo fatto?” s’infittiscono e dilagano quando ci si rende conto che Morsi e il PLJ non hanno apportato nessun cambiamento in ambito economico e sociale. 
Ma, ed è un “ma” che pesa molto sul destino di Morsi, si mostrano fieri di aver cambiato carte che per loro sembrano fondamentali – e sono, per il nuovo Egitto, assai futili.
Rendono obbligatorio l’hijab (il velo islamico più “laico”) per tutte le ragazze a scuola, ma sarebbe meglio non l’avessero fatto: in Egitto – anche in quello nuovo, s’intende – nessuno è così ingenuo da credere che in pochi mesi un governo possa risolvere tutti i problemi del Paese; ma adottare provvedimenti futili come quello dell’hijab obbligatorio e farne la propria bandiera aumenta l’indignazione generale.
Contemporaneamente, Morsi ha avuto un riavvicinamento con l’antico nemico egiziano Israele e la sicurezza quotidiana diminuisce, offuscata dalla violenza dei salafiti che si accaniscono nei confronti di chi è poco “pio” — donne senza velo, Copti e uomini dagli atteggiamenti poco ortodossi. La polizia lascia fare, Morsi lascia fare.

Il nuovo Egitto ha già vissuto una primavera; il nuovo Egitto ha già spodestato un capo del governo; il nuovo Egitto conosce ogni mattonella di Piazza Tahir e non ha paura di tornarci.
E dopo la destituzione di Morsi, è il turno di al-Sisi.
D’altronde si sa che quando un nuovo governo sceglie una spada per difendere se stesso e la propria immagine, essa può talvolta rivelarsi a doppia lama.
E al-Sisi, il generale poi maresciallo a capo dell’esercito sotto Morsi, ha tutte le carte in regola per raccogliere il potere lasciato controvoglia da Morsi.
Promette di riportare l’ordine e di separare la religione dalla politica, restituendo fiato a chi l’ha trattenuto durante il breve governo dei Fratelli Musulmani.

A conti fatti, la guida del nuovo Egitto diventa l’esercito. Esso si rafforza, si arricchisce, si erge come paladino della legalità e raccoglie consensi.
Eppure, ci sono aspetti di questo nuovo governo che sono poco convincenti. In gergo, “le stranezze”.
Dall’aumento della disoccupazione giovanile all’attuazione di centinaia di processi sommari e condanne a danno di persone spesso estranee alle colpe di cui li si accusa — clamoroso da un punto di vista mediatico resta la carcerazione (che dura ormai da più di un anno) di tre giornalisti di Al Jazeera con l’accusa di sostegno ai Fratelli Musulmani — fino ad arrivare alle vittime di questo fine settimana.
Dieci, quindici, sedici, il loro numero esatto cambia a seconda delle fonti, ma il luogo della loro morte resta lo stesso: la strada, durante le commemorazioni della capitale in occasione del quarto anniversario dallo scoppio delle contestazioni del 2011. 

Eccola un’altra “stranezza”: ci sono ancora persone che muoiono per strada, quattro anni dopo i morti in piazza (il cui sacrificio è stato ricordato con una dubbia empatia dal Presidente durante il suo discorso ufficiale), nonostante vi sia un governo stabile e approvato? Ci sono morti in strada anche se la piazza non è più prodromica ad un cambiamento, ma solo la piazza di una commemorazione?

La rivoluzione deve continuare”:  l’ha detto anche il Presidente al-Sisi. Ma questa volta, ha aggiunto, bisognerà guardare “dentro se stessi” per trovare delle risposte.
Dire agli egiziani di piazza Tahir e ai loro figli che dalla strada bisogna passare al metafisico potrebbe essere una strategia poco felice per il capo dell’esercito. Avrà le idee chiare al-Sisi: almeno, è questo quallo che sperano i cittadini sul delta del Nilo.

Elle Ti
@twitTagli

Post Correlati