Il Vaticano ha riconosciuto lo Stato palestinese. Che cosa comporterà la svolta pontificia nelle relazioni fra Israele e Chiesa Cattolica, e nel conflitto mediorientale?
STATUS QUO – Tra le prime nazioni europee a riconoscere lo Stato palestinese ci furono Polonia, Albania, Cipro, Bulgaria, Ungheria e Romania. Era il 1988, ed erano ancora tutte lontane dal far parte del groviglio dell’Unione Europea.
Nel 2012 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite fece anch’essa la sua mossa e, grazie al voto positivo di 138 nazioni, promosse la Palestina da “entità non statuale” a “Stato osservatore non membro”. Uno status identico a quello della Città del Vaticano, a cui il destino ha voluto di nuovo legare la Palestina in questi giorni, quando, in occasione della canonizzazione di due religiose palestinesi e della visita del presidente palestinese Abbas (Abu Mazen) a Roma, la Santa Sede ha raggiunto un’intesa ufficiale con lo Stato palestinese.
Lo scopo principale dell’accordo è innanzitutto quello di promuovere la difesa del cristianesimo e dei circa 60.000 fedeli che si trovano sul territorio palestinese, e in secondo luogo quello di definire questioni fiscali e giuridiche legate all’autorità della Chiesa sul territorio.
Ma i mass media rilanciano titoli esplosivi per il preambolo all’accordo, in cui si auspica una “soluzione della questione palestinese e del conflitto tra israeliani e palestinesi nell’ambito della Two-State Solution e delle risoluzioni della comunità internazionale”. C’è chi esulta soddisfatto come dopo una vittoria, illudendosi che si possa in effetti giudicare tale, e chi invece si dice “deluso” dal gesto della Santa Sede.
DIETRO AL RICONOSCIMENTO VATICANO – Che cosa significa, però, nella pratica riconoscere la Palestina come entità statuale e non più attraverso la mediazione della sigla OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina)? Significa avviare eventuali relazioni diplomatiche ufficiali tramite lo scambio di ambasciatori, ma anche scegliere di scavalcare la volontà israeliana, che ha sempre sostenuto di voler gestire in maniera diretta e personale il riconoscimento dello Stato palestinese e solo dopo il raggiungimento di un preventivo accordo di pace.
Secondo gli analisti, così facendo Stati come il Vaticano o la progressista Svezia potranno alimentare una pressione diplomatica su un Israele sempre più isolato, favorendo di conseguenza un accordo che sia siglato in maniera diversa e indipendente dalle strette di mano di John Kerry alla Casa Bianca.
Si tratta comunque di supposizioni, dal momento che gli atti fin qui compiuti sono per lo più simbolici e non solo non hanno un’implicazione pratica immediata, ma potrebbero non averla nemmeno in futuro. Come dice Daniel Lévy: “La questione è: cosa succede la mattina dopo il riconoscimento? Quelli che riconoscono la Palestina ricalibreranno in qualche modo i loro rapporti bilaterali con Israele? Finora non è successo e dubito succederà anche con il Vaticano”.
“Il popolo palestinese ha il diritto naturale ad avere una patria” disse nel 2000 ad Arafat Giovanni Paolo II. E così venne siglato un “Accordo di base” che ancora una volta aveva la funzione primaria di riconoscere e tutelare la presenza della Chiesa Cattolica in territorio palestinese, ma attraverso una prefazione in cui ancora una volta si leggeva: “Auspichiamo che attraverso la negoziazione e l’accordo, si pervenga ad una pacifica soluzione del conflitto palestinese-israeliano, che dovrebbe realizzare i legittimi e inalienabili diritti e le aspirazioni del Popolo Palestinese, e assicurare a tutta la popolazione della regione pace e sicurezza […]”.
Era il 2000, e a dialogare tra loro erano Giovanni Paolo II da una parte e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) dall’altra. Nei suoi comunicati dopo la risoluzione delle Nazioni Unite del 2012, lo Stato del Vaticano si è sempre riferito a quel territorio non più come all’OLP, ma come allo “Stato Palestinese”.
Durante il pellegrinaggio dell’anno scorso, lo stesso Papa Francesco ha inoltre scelto non casualmente di volare dalla giordana Amman, prima verso la Cisgiordania e solo successivamente verso Israele.
DIPLOMAZIA O IGNAVIA – Come che sia, il messaggio implicito inviato dalla Santa Sede a Israele sembra duplice: da una parte la Chiesa fa mostra di non approvare la continua occupazione di territori considerati palestinesi a tutti gli effetti, e dall’altra comincia a muoversi in maniera opposta a Israele stesso, poiché il riconoscimento dell’indipendenza palestinese è giudicato preludio alla pace e non viceversa.
Che sia sensata o meno, vana o proficua, questa presa di posizione da parte della Città del Vaticano getta un’ombra di imbarazzo sull’ambigua e assai derisa presa di posizione dell’Italia nel febbraio scorso, quando la Camera dei Deputati votò fondamentalmente due mozioni abbastanza diverse nei contenuti, provocando una confusione generale e l’invenzione di titoli divertenti come questo: “L’Italia riconosce la Palestina. Anzi no”.
Ma questa è un’altra storia.
Elle Ti
@twitTagli