Cosa sbagliamo nell’approccio alla legge 194 sull’aborto

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Mi sono recentemente imbattuta nell’amica del liceo, quella mai completamente evolutasi dallo status di sinistroide tardo-adolescenziale, e nel suo blog intimista.
È stato grazie a lei (e alla banalità con cui, in un post, ha affrontato il discorso inerente alla manifestazione tenutasi a Roma sabato 1 marzo) che sono riuscita a intuire cosa, in concreto, stavamo sbagliando anche stavolta.

Premessa: al grido di “mai più clandestine” qualche giorno fa sono scese in piazza del Popolo a Roma associazioni in difesa della legge 194/1978, che regola l’interruzione volontaria di gravidanza. Erano parecchie, da tutta Italia.
Le proteste di Roma si sono concentrate principalmente sulla richiesta della piena applicazione della legge in questione, di fatto ostacolata dall’altissimo numero di obiettori di coscienza – 7 su 10, medici in primis – nel sistema sanitario pubblico. La percentuale di obiettori raggiunge picchi pari all’80% tra i medici laziali, secondo i dati forniti dalle associazioni medesime.
Un’iniziativa nata, forse, anche per spirito di sorellanza (emulazione?) delle proteste spagnole scoppiate dopo una proposta governativa che ridurrebbe la possibilità di ricorrere all’Interruzione volontaria di gravidanza ai soli casi di stupro o di gravissimi rischi per la salute della donna o del feto.

La tesi – semplicistica, conformista e politicamente corretta – della mia amica blogger è: la donna ha “diritto” all’aborto, lo Stato ha reso lecito questo diritto, lo Stato deve adoperarsi a garantirlo e renderlo agevole nella prassi.
Come? Prevedendo un’equa distribuzione di personale medico (obiettore e non: magari sulla base dell’appartenenza a un determinato partito politico?!) e in extrema ratio facendo venire meno il diritto all’obiezione, arbitrariamente (nel senso di “non motivatamente”) considerato di rango inferiore rispetto al diritto di ricevere la prestazione sanitaria in questione.
Il tutto ben farcito da una serie di qualunquismi: il ginecologo che distribuisce in corsia ricette “in serie” per la pillola del giorno dopo, ma anche la dettagliata descrizione di aborti clandestini (con tutto l’elenco di improbabili luoghi, improbabili ferri e improbabili soggetti, ovviamente senza uno stracco di fonte: a che servono, quando il risultato è comunque scenografico?).

Nel mondo degli adulti le cose si analizzano diversamente. “Mai più clandestine” è una dichiarazione di intenti piuttosto chiara, e va bene.
In effetti, la tutela di questo diritto esiste sulla carta; nella prassi è effettivamente resa difficoltosa dall’alto numero di personale sanitario obiettore; effettivamente, in condizioni di impossibilità o di difficoltà la strada clandestina rischia di tornare d’attualità. Fin qui, tutto vero, tutto legittimo, tutto sacrosanto.
Non serve invece per affermare quanto appena descritto la solita lista di luoghi comuni, da “il corpo è mio e lo gestisco io” in giù.

Il punto è che i due interessi sono, entrambi, degni di essere presi in considerazione: il diritto a una prestazione sanitaria legittima da una parte, il diritto all’obiezione di coscienza dall’altra (un diritto garantito, peraltro, dall’articolo 9 della stessa legge).
Nell’opinione pubblica si tende a non prendere in considerazione alcuna via alternativa: il “diritto all’aborto” ce lo si è guadagnato con le rivendicazioni degli anni ’70 (ennesimo corollario della nostalgica e fiabesca “rivoluzione sessuale”) e come tale gode di una sorta di status di intangibilità ideologica.
Singolare: in un epoca di iper-relativismo dilagante tutto è discutibile tranne le conquiste di quegli anni.

Fermo restando il diritto alla donna all’autodeterminazione, è proprio così inconcepibile concedere a qualcuno di avere un’idea diversa – posto che la legge gli dà questo diritto? Un operatore sanitario si rifiuta di interrompere il ciclo vitale in un suo stadio: è un suo diritto, lo sancisce la legge.
È troppo bigotto, demodè, democristiano da accettare?

Il fatto che una legge possa essere effettiva in diritto e applicabile con difficoltà in atto ha del paradossale, è vero: questo però non si risolve a colpi di “giù le mani dalla 194”.
Per una volta, non sarebbe opportuno cercare la concertazione tra le varie tesi bioetiche e i vari personaggi coinvolti?
Non sarebbe auspicabile mettere mano alla legge, rileggendola alla luce dei progressi e/o regressi compiuti negli ultimi trentacinque anni?

Evita Bonino
@twitTagli

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