Dammi un hashtag e ti solleverò il mondo (oppure no).

Bring-Back-Our-Girls-Michelle-Obama.jpg

Quando i media hanno diffuso la foto di Michelle Obama che, con un broncio da bimbetta triste, mostra un cartello con su scritto #bringbackourgirls, i primi a evidenziare quanto l’immagine avesse un che di fuoriluogo e ipocrita sono stati quelli del Washington Post; a seguire, tutti, chi più chi meno, abbiamo storto il naso.
Quell’ “our” (nostro) che svetta sulla sua camicetta non è un po’ un nonsense?
Ha una logica per Abdullahi, l’attivista nigeriano che quell’hashtag l’ha inventato, ma meno per la moglie dell’uomo che guida l’unica superpotenza mondiale rimasta (quasi ovvio il fotomontaggio dell’ “hashtag moment” di Michelle con, sullo sfondo, piccoli corpi di iracheni morti: con tanti saluti al Nobel per la Pace).

Dopo lady Obama ci è toccato vedere anche, tra i famosi, una Salma Hayek che al Festival di Cannes si gira mentre sale le scale e sventola il solito foglio bianco con tanto di hashtag; e come dimenticare la dolce Bibì, (al secolo Beatrice Borromeo) che, in gran forma, twitta una sua foto con un cartello analogo (e commenta scambiando l’organizzazione Boko Haram per un individuo, rovinando il gesto – già di per sé ipocrita- e dandosi in pasto al web in tre secondi netti).

Il PERFIDO Boko Haram.

A seguire, migliaia di persone  twittano e condividono su facebook l’hashtag #bringbackourgirls, in un impeto di attivismo che prevede lo sforzo massimo di un veloce gioco tra indice e medio, giusto la fatica di schiacciare su “pubblica”: si chiama slacktivism ed è un tipo di attivismo pigro, bolso, a volte controproducente che prevede come uniche azioni l’adesione a petizioni on line, la condivisione di contenuti su social network e, per esempio, farsi un selfie con un cartello bianco con un hashtag scritto sopra.
È un modo per essere buoni (…) senza alzarsi dal divano.

Sbronzi di hashtag e fotografie di donne famose che dicono di rivolere indietro “le nostre ragazze ci illudiamo che il mondo stia facendo qualcosa, spalleggiato dalle teorie di tiggì e elzeviri vari: sempre di più si sente parlare di “guerra combattuta sui social network“.

Eppure – volessimo tornare sulla Terra – i fatti ci dicono che la scorsa settimana il governo nigeriano ha vietato le manifestazioni contro le azioni di Boko Haram per “motivi di sicurezza” – lo stesso governo, peraltro, che per settimane ha negato la circostanza di un qualunque tipo di rapimento e poi ha dovuto fare un’arrossata marcia indietro.
I fatti ci dicono anche che il 9 Giugno altre 20 ragazze sono state rapite vicino a Chibok da sospetti membri di Boko Haram – a quanto pare poco intimoriti dal rocambolesco potere dell’hashtag.

Il web ci ha condotti verso una velocizzazione, una semplificazione ed un automatismo di tanti aspetti del nostro quotidiano: ciò è stato in molti casi un passo avanti, ma non in questa circostanza.
La possibilità di potersi sentire parte del gruppo dei “buoni”, con buona pace dei nostri spettatori*, non è così semplice e ovvia come appare attraverso il social network.
A voler fare facile filosofia, non è neanche obbligatorio: se si è oltrepassato il livello “Ovetto Kinder” della propria capacità di analisi (un “se” bello grosso, me ne rendo conto) si potrebbe addirittura conquistare la consapevolezza che di scelte etiche e morali si tratta; e dunque esse non sono le stesse per tutti quanti.

Preoccupa non tanto l’impigrimento delle azioni attiviste (o sedicenti tali), bensì la deformazione del concetto in sé di attivismo: la parola stessa – a volte la linguistica sa essere goduriosa – prevede l’adempimento di una attività. Per ostacolare un mal costume, per creare un fastidio nei poteri forti, per elevare una protesta che sia forte abbastanza (non violenta, forte) da smuovere le acque: ci si attiva (voce del verbo “attivare”).
Lo slacktivism, se argomentato da qualche agile penna, può essere in fondo considerato un qualcosa del genere, una sorta di attivarsi. A patto che, mentre sosteniamo il concetto, non ci scappi da ridere.
Tutto è lecito, tutto è legittimo, sicuramente è quanto di più comodo possa intervenire sulla nostra indignazione comandata: alla resa dei conti, oltre che perbenista, è pressoché inutile. 

Ma il tutto potrebbe essere relegato alle beghe delle nostre bacheche; se invece a mettere in atto l’ “hashtag diplomacy” è Michelle Obama forse il tutto ci sta sfuggendo di mano: nel momento in cui lo fa lei, legittima noi a pensare che basti davvero un hashtag a cambiare le cose.
Volete la frase a effetto? Martin Luther King, sì, viene ricordato per le sue parole; ma esse hanno valore anche (e soprattutto) perché lui fu disposto a morire in nome del diritto di poterle pronunciare.

Commerciale
@twitTagli

*Eccerto: spettatori. I social network sono un palcoscenico dove diamo in pasto al pubblico il personaggio che vorremmo essere.

Post Correlati