Bojack Horseman non è la serie che ci meritiamo, ma quella di cui abbiamo bisogno

Disclaimer: questo articolo non è la solita recensione né carne né pesce. Soprattutto perché l’autore dell’articolo è notoriamente vegetariano.

Questo articolo sarebbe più chiaro e accessibile a chi conosce Bojack Horseman, la serie animata di Netflix con un cavallo antropomorfo come protagonista.

Nel trattare l’argomento, vorrei per una volta evitare di perdermi in noiosi riepiloghi. Mi piacerebbe iniziare in medias res, come se fosse la terza o quarta stagione di una recensione. Se la cosa vi disturba, la colpa non è mia.

Okay, la colpa è mia. Ma la verità è che a questo punto della vostra vita dovreste davvero guardare Bojack Horseman. È tipo una delle tre o quattro verità inconfutabili del Cosmo: Babbo Natale non esiste, il Toro di Mazzarri gioca male, non ci sono più le mezze stagioni, dovreste guardare Bojack Horseman.

Fatta questa dovuta premessa, secondo me potete tranquillamente leggere questo articolo anche se non sapete cosa sia Bojack Horseman. Non ci sono spoiler, solo riflessioni.

Scusate, sto perdendo tempo. Ora comincio.

Sigla.

Il movimento del #MeToo è diventato uno dei simboli culturali del 2017, e i suoi effetti sulla nostra società civile, sulla cultura pop e sul mondo dell’intrattenimento in particolare restano evidenti nel 2018. Eppure, per ogni volta che se ne è provato a discutere a livello di mass media, il dibattito è rapidamente scivolato nella melma del qualunquismo antifemminista o del giustizialismo da social network. Per ogni riferimento letterario, giornalistico, cinematografico o televisivo, la sensazione di superficialità e pressappochismo ha sostituito l’approfondimento più genuino, e la mia sensazione è che potremo raccontarci davvero questo fenomeno solo tra qualche anno, un po’ come lo era stato per la rivoluzione del ’68. Inutile parlarne mentre è in corso.

Per ogni dibattito sospeso a metà, per ogni giudizio approssimativo e bilancio affrettato, Bojack Horseman è l’unico contenuto artistico che abbia mai letto o visto capace di porsi direttamente in prima linea nell’affrontare l’argomento, in un modo che a nessun altro è ancora riuscito.

Fin dalla sua premessa iniziale, Bojack Horseman è in qualche modo una storia da #MeeToo.

Ambientato nel mondo dell’industria cinematografica americana, il suo protagonista è esattamente il tipo di personaggio che è stato sotto la lente di ingrandimento pubblico a partire dallo scorso anno: una star di mezza età con un passato oscuro e un presente ambiguo. Bojack Horseman è l’archetipo di un antieroe le cui tendenze di dipendenza da sesso e alcol sono non esattamente romanticizzate e glorificate, ma quantomeno “normalizzate”. Non siamo ai livelli pietosi e autocompiaciuti del David Duchovny di Californication, ma a quelli molto più realistici di un simil-Charlie Sheen con la testa da cavallo, che sguazza nel traffico di Los Angeles inconsapevole che sulle sue spalle graviti forse il più importante esempio di “grande romanzo americano” contemporaneo.

Se il protagonista della tua serie è un concentrato di tutto quello che nell’era post #MeeToo si sta cercando (giustamente) di combattere e condannare, come ti comporti?

Esattamente come si è comportata la quinta stagione di Bojack Horseman.

Al suo interno, il #MeeToo non viene mai direttamente citato o chiamato per nome. I suoi echi sono più o meno espliciti, e un riferimento diretto all’argomento avrebbe reso la riflessione meno profonda e universale, meno “letteraria” di quanto una serie così ben scritta può permettersi di essere.

Al contrario, Bojack Horseman esplora, incarna e mette in scena l’esperienza di vivere in una Hollywoo(d) dominata da cecità e sordità maschile, tanto davanti che dietro alla macchina da presa. Non c’è un singolo personaggio che si limiti al semplice ruolo di “metafora vivente”, ma ogni componente del suo cast corale espone la storia ai riflessi di una realtà che è incredibilmente vera e vicina noi, anche se popolata da animali antropomorfi.

 Bojack Horseman non risparmia alcun pugno nello stomaco né al suo protagonista né a se stessa in quanto serie tv, e si interroga su cosa significhi raccontare una storia che magari non esalta certi comportamenti o tendenze, ma sicuramente le “normalizza” nei confronti del pubblico.

In uno degli episodi, Diane cerca di spiegare a Bojack il pericolo e l’arma a doppio taglio rappresentata da questa normalizzazione da parte dei media, mentre l’uomo-cavallo si lancia in un improvvisato afflato di militanza femminista che somiglia tanto a quello che sta contagiando molti di noi nel corso degli ultimi due anni.

Ma il femminismo non si improvvisa. Appartenere a un movimento non si autocertifica, ma si conquista con il valore dei propri gesti e delle proprie opinioni. Bojack Horseman riflette sulla natura problematica di se stesso in quanto personaggio e di se stesso in quanto prodotto televisivo, ed è uno dei più grandi successi artistici a cui abbia mai assistito. Non lancia mai una condanna e non concede mai un perdono, ma dimostra allo spettatore come non esistano risposte semplici, e come i problemi di una società non spariscono mai dall’oggi al domani. Proprio come le persone.

Naturalmente, c’è molto altro in Bojack Horseman di quanto io stia facendo trasparire. Stiamo comunque parlando di un cartone animato in cui la principale sottotrama di diversi episodi ruota attorno ad un sex robot con la testa da frullatore e appendici falliche al posto degli arti che diventa il dirigente di uno Studio televisivo. Bojack Horseman non si dimentica quasi mai di essere una commedia, e spesso fa anche parecchio ridere.

Ma il suo animo più scanzonato non oscura mai il coraggio artistico e creativo dei suoi contenuti meno espliciti. Non so quante altre serie televisive attualmente in circolazione possano vantare al loro interno un episodio come “Time’s Arrow” della passata stagione, oppure quanti possano permettersi di costruire un intero episodio sul primo piano di un personaggio che tiene un monologo con la camera fissa. Prima di essere un “trattato a episodi”, prima di essere un facile argomento di conversazione tra salotti di spettatori e appassionati di serie tv, Bojack Horseman è soprattutto un prodotto scritto meravigliosamente bene, dark, deprimente e al tempo stesso esilarante. È la dimostrazione che, quando vuole, Netflix è in grado di proporre i contenuti più ambiziosi sul mercato ed affiancarli a una “alta digeribilità” che li rende apprezzati e consumati da una larghissima fetta di pubblico a livello internazionale.

La quinta stagione di Bojack Horsemen racchiude al suo interno i demoni mediatici che abbiamo tentato di esorcizzare negli ultimi due anni, e riesce meglio di praticamente chiunque altro a provocare una discussione mai banale, e costantemente attuale.

Davide Mela

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