
The aim of intelligence is to put the whole goddamned human race out of work.
– Robert Sheckley
Questo weekend sono successe cose un po’ strane: la prima è che mi sono alzato alle 7.00 di domenica. È stato doloroso, oltre che strano. La seconda è che mi sono commosso, commosso vi dico, ascoltando “Heaven Is A Place On Earth” di Belinda Carlisle.
Ci sono cose che attendiamo spasmodicamente perché guardarle ci fa stare male. Il derby Toro-Juve è uno di questi casi, e Black Mirror di Charlie Brooker è un altro: una miniserie britannica la cui distribuzione è stata rilevata circa due anni fa da Netflix, che ha commissionato una terza stagione composta da 12 episodi. I primi 6 sono usciti lo scorso 21 ottobre, e il sottoscritto ne ha visti 4.
Sono all’altezza delle stagioni precedenti? Nì. Sono sempre rappresentativi di un prodotto capace di inquadrare ed esaminare la realtà con atroce consapevolezza? Assolutamente sì.
Black Mirror, nel corso delle sue prime stagioni, è stato praticamente apocalittico; proprio nel senso di “apokálypsis” cioè “rivelazione”. Intenso e ricchissimo di significati, la cosa più precisa e sintetica da dire su Black Mirror emerge, quasi beffardamente, dalla descrizione che si legge sul suo account Twitter ufficiale:
Grazie a una profondità di contenuti quasi senza precedenti in televisione, in particolare per il genere affrontato e le tematiche esplorate, la serie di Charlie Brooker è diventata un prodotto seguito da milioni di spettatori e ha generato una capacità di convogliare discussioni degna della migliore narrativa di fantascienza del ‘900. Per quanto mi riguarda, non è una bestemmia parlare di Black Mirror come si parla delle opere di Ray Bradbury, George Orwell, Robert Sheckley, Aldous Huxley e Philip K. Dick: come in Black Mirror, molto spesso questi autori sono accomunati dalla scelta di organizzare le loro storie con la forma del “racconto breve” e dell’antologia.
La miniserie inglese, anche per rispettare i canoni tipici della televisione britannica e di come sono strutturate le fiction sulla BBC, si è sempre presentata al pubblico come un’antologia di mondi e storie diverse fra loro, tematicamente legate a un unico imperativo: descrivere il rapporto tra l’esistenza umana e la tecnologia, mettere in scena un futuro/presente metaforico e apocalittico (cioè rivelatorio), vicino a noi quanto basta per permettere di guardarci allo specchio.
È inutile spendere ulteriori parole per descrivere Black Mirror in generale a chi non l’ha mai visto prima; se non l’avete visto, semplicemente fatelo. Se invece lo avete già visto, tutto ciò vi annoierà e magari sarete più interessati a sapere se questa terza stagione sponsorizzata Netflix sia all’altezza delle gigantesche aspettative dei suoi fan.
Ebbene, Black Mirror – Stagione III è diverso rispetto a come ce lo ricordavamo, ma allo stesso tempo non è cambiato di una virgola. Le sue storie hanno sempre al centro uno o due protagonisti chiari e definiti, con cui è praticamente sempre possibile empatizzare e su cui la storia di volta in volta può concentrarsi senza perdere tempo a “fare noiosi spiegoni” su come funziona il mondo in cui abitano.
Black Mirror è meraviglioso perché, come la migliore fantascienza, non perde mai tempo in preamboli che illustrano le caratteristiche del futuro in cui è ambientato. Lo spettatore è “gettato al mondo” come un suo abitante ordinario e parte dell’immenso piacere è scoprire come funzionano le “regole” di questo gioco.
La cosa fondamentale, qualunque sia il tema affrontato o il sotto-genere con il quale Brooker si cimenta (il thriller, il dramma o perfino la commedia romantica), è che al centro della storia c’è sempre un essere umano. Perché il messaggio e il “discorso” impostato dall’episodio funzioni e penetri nel nostro inconscio, è fondamentale che riguardi intimamente una persona, e per questo Black Mirror è quasi sempre un’indagine psicologica e uno studio di caratteri.
A volte funziona alla grande, altre volte (raramente) meno bene: in questa terza stagione, di cui ho visto 4 episodi su 6, secondo me funziona bene 3 volte su 4.
Il primo episodio si chiama “Nosedive” ed è una parabola tragicomica un po’ sopra le righe che descrive un mondo in cui social media e quotidiane interazioni fisiche praticamente sono la stessa cosa; ogni situazione della tua vita riceve una votazione da una a cinque stelline, e da questo dipendono moltissimi aspetti della tua posizione nel mondo. Già questa breve sinossi è mortalmente noiosa e riduttiva, e spero di avere dato il senso di quanto Black Mirror non vada più di tanto “spiegato” o dissezionato, ma vada piuttosto visto. Per quanto mi riguarda, “Nosedive” è l’episodio fra i primi quattro della stagione che funziona meno, perché la sua metafora nel terzo atto è eccessivamente diretta e poco sottile. La parabola della protagonista si riduce a un “imparare la lezione” e diventare vittima del sistema del quale prima cercava disperatamente di fare parte.
Il secondo episodio si chiama “Playtest”e parla di realtà virtuale e videogiochi; è diretto da Dan Trachtenberg, regista di quel gioiellino uscito la scorsa primavera che si chiama “Ten Cloverfield Lane”. Il terzo episodio, “Shut Up and Dance” è ambientato in un presente assolutamente credibile ed è quanto di più realistico e vicino alla nostra realtà che Black Mirror abbia mai messo in scena. Per stessa ammissione di Charlie Brooker, “Shut Up and Dance” potrebbe succedere oggi a chiunque ed è indicativo del moderno sentimento di angoscia nei confronti del controllo dei nostri dati e della tracciabilità della nostra presenza sul web.
Nel quarto episodio, “San Junipero”, la stagione tocca il suo punto più alto e, personalmente, azzecca uno dei migliori episodi che Black Mirror abbia mai offerto. È il racconto semplice e privo di retorica di una storia d’amore, ma è soprattutto una riflessione lancinante su morte ed immortalità. “San Junipero” dimostra che Charlie Brooker non sa solo scrivere pseudo-satira fantascientifica, ma sa soprattutto creare un legame emotivo fra spettatore e protagonista. La società si può raccontare, ma le riflessioni più autentiche e profonde e le migliori domande sulla nostra identità e sul mondo in cui viviamo arrivano solo a partire dall’individuo.
Ed ecco la risposta che mi sento di dare al quesito “Black Mirror è bello anche su Netflix?”: Black Mirror è diverso, ed è la sua caratteristica più interessante.
Non smetterà mai di essere rilevante, perché anche le sue intuizioni meno profonde scuotono le menti di chi lo guarda. Ma, più di tutto ciò, Black Mirror nei suoi momenti migliori dimostra che nella fantascienza è altrettanto importante scuotere le sensibilità personali.
Con tutte le sue metafore e le sue parabole profetiche che riguardano il ruolo, e le potenziali minacce, della tecnologia nel mondo di oggi, Black Mirror ha il gigantesco, sottovalutato merito di essere prima di tutto una bella storia, di coinvolgerci nel profondo in quanto individui, accedendo al nostro bagaglio emotivo e alle interpretazioni che noi stessi scegliamo di dare.
Possiamo ridere, piangere o pensare cupamente al destino che ci aspetta come civiltà e come specie, ma è straordinariamente raro che un prodotto televisivo si ponga queste ambizioni e le rispetti quasi sempre, ed è altrettanto raro che, in mezzo a tutto il calcolato cinismo che mi contraddistingue come spettatore, io riesca anche a trovarci dei significati intimi, umani e personali, che riesca a mettere la “storia” davanti alla metafora.
Per questo, la mia conclusione è che di fronte all’abisso valga sempre la pena sorridere o commuoversi. Forse rappresenta (anche su Netflix) una piccola vittoria dell’uomo sulla macchina.
Davide Mela
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