Artemisia Gentileschi fu una talentuosa pittrice del seicento italiano e credo che avrebbe voluto essere nota ai posteri unicamente per questo.
Il passare dei secoli, invece, ha gettato uno spesso strato di polvere sul suo lavoro e ci ha regalato di lei quasi esclusivamente l’immagine di una donna affascinante e coraggiosa che, nel 1611, subì uno stupro da parte del suo insegnante di prospettiva e che, grazie ad un carattere forte e un padre illuminato, riuscì a trascinare il suo violentatore nel vortice di un processo che la dichiarò vincente. Questa versione della storia è sempre piaciuta molto alle femministe che fecero di lei, negli anni ’60, una paladina della giustizia, ma il quadro generale di come andarono le cose è un po’ più amaro di così.
I FATTI – nel 1611 Artemisia ha 17 anni, è attraente e vuole fare la pittrice – il che la rende negativamente peculiare agli occhi della società in cui vive: dalla sua ha un padre, Orazio, che le procura ottimi insegnanti e le permette di coltivare il suo talento.
Uno di questi insegnanti è Agostino Tassi, amico di Orazio e noto farabutto. Durante una lezione il Tassi stupra Artemisia, che però acconsente a tacere l’accaduto in quanto l’uomo promette di sposarla: a quel punto i due cominciano ad avere rapporti more uxorio che si protrarranno per un anno circa. È molto importante sapere che per la società del tempo con “stupro” non si intendeva l’atto della violenza in sé, bensì l’aver preteso – più o meno forzatamente – l’atto, senza il rispetto della proposta di accasamento: non con lo stupro ma con il mancato matrimonio viene offesa Artemisia e, più di lei, la sua famiglia.
La ragazza, nel contempo, dipinge e lascia sulla tela chiari cenni autobiografici; per esempio abbiamo una Giuditta che uccide Oloferne (1612) di spiccato sapore caravaggesco nel quale i critici dei secoli a venire hanno visto rappresentata la forza vendicativa della pittrice nei confronti del suo aguzzino: nell’espressione fredda e dura della donna nel dipinto, nella cruenza del sangue che cola copioso dal collo dell’uomo e nei colori roventi c’è la collera della Gentileschi, che fa sfociare il suo rancore dalla punta dei pennelli.
IL PROCESSO – La questione della violenza sessuale venne a galla solo nel 1612 e proprio a causa della Giuditta: Orazio Gentileschi entrò infatti in collisione con il Tassi accusandolo di aver rubato il quadro in questione. Per aggravare la posizione dell’insegnante, il padre fece emergere anche l’episodio di violenza verso la figlia, ed il mancato mantenimento delle promesse coniugali: fu così che la reputazione di Artemisia divenne di pubblico dominio e fu sottoposta alla carneficina del popolino.
Il processo iniziò e Artemisia subì vessanti interrogatori; molte furono le testimonianze finalizzate a screditarla con l’intento di rappresentarla come tentatrice. Venne sottoposta a torture come lo schiacciamento dei pollici, pratica doppiamente dolorosa per una pittrice. Alla fine, comunque, la sua tenacia la spuntò e il Tassi venne condannato, anche alla luce di vari precedenti (incesto e truffa tra i più gravi) che alcuni testimoni avevano riportato.
LE CONSEGUENZE – La questione dello stupro rese la Gentileschi una figura ambigua e sommamente criticata dalla società romana che l’aveva cresciuta e che ora, invece, la obbligava a fuggire: così, dopo un matrimonio riparatore con tale Pierantonio Stiattesi, Artemisia si trasferì a Firenze dove fu la prima donna a entrare all’Accademia delle Arti del Disegno.
Da lì si spostò in varie città d’Italia e passò un periodo in Inghilterra per poi tornare in patria, a Napoli: ovunque seppe imporsi come artista di talento e donna indipendente e rispettabile. Per lo più viaggiò senza il marito al seguito bensì accompagnata dalle sole figlie alle quali procurò matrimoni di valore e una vita agiata. Non recuperò mai del tutto il rapporto con il padre.
L’EVOLUZIONE PITTORICA E LE INFLUENZE PERSONALI – Grazie alle sue tendenze nomadi Artemisia arricchì la sua arte (di imprinting fieramente caravaggesco) di notevoli influenze classiche e manieristiche: quando arrivò a Napoli il suo modo di dipingere era talmente ricco e potenziato da infiltrazioni stilistiche romane, fiorentine, veneziane ed inglesi che non potè che essere acclamata ed accettata (e difatti, benché donna, fu proprio a Napoli che ebbe commissioni di grande valore come le tre tele della Cattedrale di Pozzuoli).
In Artemisia rimase sempre aperta la ferita provocata dalle sofferenze delle vicissitudini giovanili e questo non poté non influenzare il suo operato, che ne guadagnò: prese la luce del Caravaggio e la piegò ad una rappresentazione della violenza fisica tanto verosimile che, diranno alcuni, non sembra poter provenire da una mano femminile. Di fatto, nessuna Giuditta come quella gentilesca trasuda cattiveria sanguinaria e rabbia vendicativa.
Notevoli sono anche i dipinti nei quali è presente il tema della sorellanza (la sua Giuditta è l’unica nella quale l’ancella partecipa all’atto aiutando la padrona nell’assassinio) e il sottolineare l’importanza della solidarietà femminile, che venne a mancare alla Gentileschi con il voltafaccia della sua amica Tuzia, che testimoniò contro di lei durante il processo.
Per dare un’idea di quanto la Gentileschi dovette faticare per lasciare che il suo passato non intaccasse il suo presente basta ricordare l’ironico epitaffio scritto dai veneziani Giovan Francesco Loredano e Pietro Michele alla sua morte (1653):
“Co’l dipinger la faccia a questo e a quello
Nel mondo m’acquistai merto infinito
Nel l’intagliar le corna a mio marito
Lasciai il pennello, e presi lo scalpello
Gentil’esca de cori a chi vedermi
Poteva sempre fui nel cieco Mondo;
Hor, che tra questi marmi mi nascondo,
Sono fatta Gentil’esca de vermi”.
Cosa avrebbe detto Artemisia Gentileschi alle femministe? Avrebbe forse appoggiato la loro causa in quanto coraggiosa fanciulla che, costretta a immolarsi di fronte a un popolo ostile, riesce a far condannare il proprio violentatore? O avrebbe forse cercato di ricordare, una volta per tutte, che prima di essere donna violentata e paladina – suo malgrado – del suo sesso, la Gentileschi avrebbe voluto essere solo una grande pittrice?
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