Nella Roma di papa Paolo V corre l’anno del Signore 1606. C’è un uomo che s’aggira per le strade e i vicoli, vestito di un tabarro nero, e con un cappello dalle ampie falde, anch’esso nero, e pure è nero il cane che lo segue al fianco, Cornacchia.
I passanti che lo riconoscono cambiano lato, evitano di guardarlo negli occhi, tirano dritto.
Ha una brutta fama quel ceffo. Ha il sangue caldo, ha l’anima che avvampa con facilità, la mano scende troppo spesso ad impugnare la spada, e per futili motivi, per giunta. Arrogante, orgoglioso, turbolento, violento.
Ha sfrenati appetiti sessuali. E tanto altro ancora: biscazziere, rissoso, membro di gang teppistiche, tiratardi impenitente, frequentatore di bettole dai tavolacci lerci di vino scadente e brutta umanità lesa dal bicchiere, puttaniere, pappone, seduttore di mogli altrui, sfregiatore, picchiatore, attentatore di vite.
L’uomo è un combinaguai per natura.
Nella sua giovane vita, ha già cambiato più volte luogo di residenza, rincorso dalla legge e dagli sbirri, lasciando come ricordo di sè, diffamazioni, debiti, schiamazzi, occhi neri, sprangate, tagli e una volta anche un piatto di carciofi in faccia ad un cameriere.
Poco tempo prima ha dovuto darsela a gambe, diretto a Genova, per un soggiorno obbligato dalle circostanze – ovvero per far calmare le acque nell’Urbe, perché ha sfregiato con la lama la testa di un notaio romano, reo di consegnare al briccone, per dovere di funzionario, l’ordine del tribunale. Che c’era scritto? Robetta: si vietava alla canaglia di continuare, imperterrito, a stringere relazione di natura scandalosa con l’adultera Lena, consorte di altro rispettabile cornuto.
Cum magna sanguinis effusione, sangue a catinelle, dicono gli atti polizieschi, il farabutto ha aperto la zucca al povero ligio notaio.
Individuo burrascoso, non v’è dubbio, ma il facinoroso ha dalla sua parte una nutrita fazioni di bei nomi, vip, potenti, ricchi, protettori politici e porporati. L’irascibile si è guadagnato quelle influenti amicizie perché non è solo un bullo di strada, ma anche e soprattutto un genio del pennello, un famoso pittore alla moda, pioniere del barocco, artistar.
Il suo nome, immortale, è Michelangelo Merisi, ma lo chiamano Caravaggio, come il borgo bergamasco, perché quella è l’origine della sua famiglia.
Dipinge per committenti dai borselli pesanti tele di grandi dimensioni con soggetti religiosi, episodi di vita dei santi, martirii, estasi mistiche, sofferenze del Cristo, visioni bibliche dall’antico testamento, talvolta molto violente come nel Giuditta e Oloferne.
Non solo, realizza quadri con figure pagane; frivole ed ebbre come nel Bacco, icona di abbondanza ed eterna giovinezza, e dove ha inserito un autoritratto segreto all’interno della caraffa di vino; oppure cattura scene popolari, picaresche, come ne I bari, triangolo composto da un giovane pollo da spennare e due truffatori navigati, con estrema precisione di particolari e di descrizione psicologica.
Merisi rompe la tradizione accademica, di eredità rinascimentale e dominata dal classicismo, e compie la sua rivoluzione. Lo sfondo non è importante, piuttosto lo sono i personaggi. A lui interessa l’illuminazione, il gioco di luce ed ombra; nel ritrarre in vesti religiose o mitologiche i suoi modelli, piazza le lanterne nel suo studio in modo da lasciarli in parte coperti dall’oscurità.
È lo studio alla teatralità, vanno in scena su tele divenute palchi per recitazioni drammatiche, compassioni, sentimenti, malinconia, la realtà. La strada gli fornisce i modelli di cui ha bisogno, e sono uomini e donne del popolo se non proprio dei bassifondi, come nella Vocazione di San Matteo, che sembra essere ambientata in un’osteria seicentesca nella penombra squarciata dal fascio di luce sacra, che è divina, che è la vocazione, che è lo sguardo di Dio.
Sacro e profano, l’umanità che frequenta Caravaggio è la fonte d’ispirazione per la sua dedizione al realismo.
E quando si spinge troppo oltre, la sua opera fa grave scandalo, come per la Morte della Vergine, dove l’artista si prende la peccaminosa libertà di dipingere la Madonna con canoni completamente diversi rispetto al passato, immorali.
Si dice abbia tratto ispirazione dal cadavere di una prostituta annegata nel Tevere. Sacrilegio!
Quel ventre gonfio fa abbassare gli occhi dei pii committenti, i Carmelitani Scalzi, che non la vogliono più.
E poi quei piedi e quelle caviglie scoperte… bestemmia!
Non solennità religiosa, ma umanità, licenziosa e troppa per un soggetto religioso di quattro secoli orsono.
Adesso però, il nostro scalmanato la sta per combinare davvero grossa. Rione di Campo Marzio, 29 maggio 1606, sotto il palazzo dell’ambasciatore del Granducato di Toscana si disputa una partita di pallacorda.
È uno sport che scalda gli animi, le scommesse fanno girare nelle mani un bel po’ di monete.
Caravaggio è con la sua banda, son quattro prepotenti vestiti di nero dal coltello facile.
Vengono lì per chiudere i conti con la gang rivale capeggiata da Ranuccio Tommasoni da Terni, altro bellimbusto di pessima fama, ma di alto lignaggio, figlio di un colonnello legato all’aristocrazia filo-spagnola, fazione molto potente ora che il papa Paolo V è vicino alla corona di Spagna.
“Tu! Ranuccio! Figlio di cagna cortigiana!”
Gli sgherri delle due parti si insultano, invadono il campo, il gioco si ferma.
Il rumore di lame sguainate è sottile e stridulo.
Michelangelo e Ranuccio è da tempo che manifestano reciproco e sincero odio. Si pensa a questioni legati alla pallacorda, a debiti di gioco, ma no, le ragioni della disputa sono da ricercarsi nell’altro movente che fa scorrere il sangue: le donne.
Merisi ha sedotto la compagna di Tommasoni, Lavinia Giugoli, disonorandolo. Non basta. A far diventare una furia il rampollo teppista, è stata in realtà un’altra donna, Filide Melandroni, modella ed escort di lusso, che Caravaggio vorrebbe soffiargli dalla sua scuderia di puttane, per farne a sua volta una fonte di guadagno.
La lite è quindi cosa da magnaccia.
L’oggetto della contesa violenta è la sensuale Filide, che è anche musa per l’artista. Prima si è menzionato Giuditta e Oloferne: eccola, la squillo Filide, nei panni di Giuditta con scimitarra, vedova ebrea vendicatrice e cacciatrice di teste assire.
Duello, lama contro lama, en garde!
Stoccata di Ranuccio, Caravaggio ha la spalla bucata.
Ma il pittore contrattacca, furioso, la punta della sua spada affonda nel petto dell’avversario, che cade nella polvere. Michelangelo ha vinto la sfida, ma non è ancora soddisfatto.
Assesta al nemico in terra un ultimo colpo, un buffetto d’addio.
Gli tira un colpo sui testicoli, per umiliarne la virilità, gli infilza il pisello.
Ahia!
È un colpo bassissimo, mentre scrivo mi giro dall’altra parte per non guardare cosa mi sono immaginato. Nel vanto maschile del Ranuccio, un’arteria vitale è squarciata.
Il sangue scorre a litri via dal basso ventre, trascinando la vita del duellante in una pozza rosso scuro sul campo della pallacorda.
Ranuccio muore dissanguato, Caravaggio è un assassino.
Gli amici sgherri lo portano via, prima dell’arrivo delle alabarde poliziotte, e bussano al portone del palazzo dove risiede l’ambasciatore di Toscana Giovanni Niccolini, che è di proprietà del cardinale Francesco del Monte, l’eccellente protettore, e invocano rifugio.
Il portone si schiude, dentro, svelti!
La faccenda è gravissima. Scandalo a Roma, un altro per colpa di quel giovane scalmanato, ma questa volta è troppo seria la questione per chiudere un occhio.
Non è solo una rissa tra balordi, c’è politica.
Ranuccio Tommasoni è cadetto di potente famiglia filo-spagnola, Michelangelo è vicino all’ambasciatore del re di Francia, altra fazione rivale.
Il verdetto del processo per direttissima (e in contumacia) è senza appello e d’esempio.
Caravaggio latitante è condannato alla pena capitale per decapitazione, la sentenza può essere eseguita da chiunque lo riconosca per la strada.
I tanti nemici sogghignano e affilano i coltelli.
Ma l’artista killer è appoggiato dai principi Colonna, di origine bizantina e patrizi dalla notte dei tempi, casa aristocratica da sempre fornitrice di schiere di cardinali.
Filippo I Colonna lo nasconde nei suoi feudi laziali e depista gli inquirenti papalini.
La condanna per taglio della testa influenzerà l’ispirazione del pittore. Compaiono nelle sue tele diverse teste mozzate, sua morbosa ossessione, raffigurando spesso il suo stesso volto in quello dei giustiziati.
Si autoritrae decapitato.
In fuga, soggiorna a Napoli, nei Quartieri Spagnoli, dove dipinge moltissimo.
Dopo l’esperienza partenopea raggiunge Malta, sede dei Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, per farsi anche lui cavaliere. Ottenuto quel rango difatti, avrebbe immediatamente l’immunità, e sarebbero gran pernacchie all’indirizzo del papa e dei suoi guidici e sbirri.
Non ci riesce, mannaggia lui e il suo carattere infuocato: litiga con un altro cavaliere, lo sbattono al fresco. Evasione rocambolesca: Caravaggio scappa dal carcere di La Valletta.
“Michelangelo Merisi da Caravaggio è espulso con disonore dal nostro Sacro Ordine di San Giovanni, come membro fetido e putrido.”
Non c’è nulla da fare, quel genio ribelle è irrecuperabile ed è costretto ad una nuova fuga. La condizione di fuggitivo è sua caratteristica propria.
Lo vediamo adesso in Sicilia, dominata dalla corona di Filippo III di Spagna.
Si ferma a Siracusa e a Messina, e chissà anche a Palermo. Non si è certi della sua permanenza nella grande città del Mediterraneo, indizi recenti ci dicono che forse non ci passa.
Quindi è probabile che l’opera Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi, per molto tempo ritenuta esser stata dipinta proprio a Palermo, sia in realtà stata realizzata precedentemente, su commissione a Roma anni prima, e poi successivamente collocata in Sicilia. Osservando difatti gli altri dipinti eseguiti nello stesso periodo a Messina e Siracusa, si notano evidenti differenze stilistiche e che fan pensare che la Natività sia collocabile nel periodo romano di Caravaggio.
Ma poco ci importa, su dove, come, per chi e quando è dipinta la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi. Quello che ci importa è la sua storia recente, sfortunata e misteriosa. Siamo di fronte ad un delitto.
Un rapimento, di certo. Forse addirittura un omicidio. Non lo sappiamo con sicurezza, mai difatti un cadavere è stato ritrovato. Questo racconto non ha il fine di raccontare il riassunto smozzicato dell’interessante ed agitata biografia di Michelangelo Merisi, che pure sarebbe bellissima.
Si vuole fare un balzo temporale di tre secoli e mezzo, per narrare di una vicenda criminale di una notte d’ottobre del 1969, accaduta nel centro storico di Palermo.
Piove. L’acqua scroscia nelle antiche strade della Kalsa, quartiere di origine araba, nel ‘600 cuore nobile dei signori della città, ma ora, nell’epoca da noi visitata, in rovina. Notte di solitudine e di pioggia, nella Kalsa.
Nell’Oratorio di San Lorenzo, le candele illuminano gli stucchi di Giacomo Serpotta, il più grande stuccatore d’Europa, Magister Stuccator, formatosi nella Roma barocca.
Tutt’attorno, bagliori fiochi estraggono dall’oscurità forme sinuose, allegorie, figure di gesso indurito, mani, volti, estasi che escono dall’ombra.
I puttini immacolati giocano, tra le storie dei Santi Lorenzo e Francesco e i panorami intravisti di nicchie profonde.
Le pareti sono vive, si muovono.
I personaggi escono dai muri. Appesa sopra l’altare, la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assi.
La luce giallognola dei lumi è poca, ma basta per ammirare, per capire la grandezza di chi ha dipinto.
È la rappresentazione di un presepio. Nessun lusso, non c’è ricchezza, la scena avviene in un’umile stalla. Una scena povera rivolta ai poveri. Al pittore il tempo non interessa, la nascita di Cristo, il divino che si fa carne, è ovunque, sempre.
Compaiono personaggi vissuti in epoche diverse, come Maria, un giovane San Giuseppe e il bambin Gesù assieme a San Lorenzo, a cui è dedicato l’oratorio, e a San Francesco d’Assisi, in onore dell’omonima Venerabile Compagnia, proprietaria dell’edificio.
Non c’è gioia, ma malinconia, sottilineata dai colori spenti e dalla luce; noi lo guardiamo ora a lume di candela ma è il quadro stesso che si mostra con quella lieve illuminazione. E forse è la Madonna che sa in cuor suo, quale sarà il destino del suo bimbo.
Tristezza, non è la celebrazione della nascita del Salvatore degli uomini, ma il presagio della sua morte. Dimensione temporale di 33 anni, oggi Cristo nasce, domani sarà crocefisso, è scritto in cielo. Gloria in excelsis Deo recita lo striscione portato dall’angelo volante, gloria a Dio nel più alto dei cieli.
Il presepe vivente, il presepe morente. Michelangelo Merisi da Caravaggio, genio ultraterreno e sregolatezza terrena, come da tradizione; mano peccatrice mossa da capacità divina, il grande peccatore baciato da Dio; il sacro dell’opera immortale e il profano di una vita carnale che arde a fiamme alte. Pensieri, forse esagerati, che si alzano dalla ragione. I pensieri sono interrotti.
Il flash di un lampo perfora la notte di Palermo, svela per una frazione di secondo tutto l’interno del’oratorio. Segue un rombo di tuono, che scuote le strade deserte. Le candele si spengono, ora tutto è buio.
Per un lungo minuto, l’unico rumore è la pioggia battente.
Poi, arriva un altro rumore. È il verso di un motore poco potente, mal carburato, che si avvicina, arrancando.
È una moto Ape, tutta sghangherata, vecchia, sporca, una caffettiera a tre ruote. A bordo, dentro la cabina chiusa, tre uomini stretti e schiacciati tra loro, procedono sferragliando lungo vie abbandonate, intralciate di immondizia e rottami, tra palazzi di un’aristocrazia estinta o in malora, con le assi alle finestre e i balconi marci sorretti da impalcature precarie.
Quello che un tempo era scintillante, ora è scrostato. È la testimonianza infelice di un tempo glorioso ormai tramontato. Il quartiere è fatiscente, decadente, sta crollando. Délabré.
L’Ape rottame viaggia insicura sobbalzando nelle pozzanghere di liquami e nei crateri mai riparati, il suo faro illumina male muri ammuffiti e vicoli fradici.
Non c’è altra luce, nessun lampione.
Da via del Parlamento, la carretta prende via Immacolatella, dove c’è l’oratorio di San Lorenzo, le cui mura custodiscono un tesoro.
Sono lì per rubarlo.
Per i ladri, entrare dentro l’oratorio, è uno scherzo. Basta spingere un poco una delle porte finestre, di legno guasto, infilare un piede di porco nella fessura tra le due ante, e sollevare la sbarra che le tiene unite.
La sbarra cade sul pavimento dell’oratorio facendo clang!
Quella è l’unico antifurto a protezione della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio. Una difesa ridicola, un invito ai predoni.
I tre ladri non sono però una banda di professionisti come ci si aspetterebbe per un furto di tale importanza. Sono tre balordi, rozzi, stupidi, ignoranti come capre, malviventi bifolchi, picciotti a basso costo e intelletto ancor più basso.
Accendono le torce elettriche, profanano il luogo sacro con i loro scarponi infangati e i loro passi da trogloditi. I volti dei puttini scolpiti sembra che cambino espressione, non sorridono più ma sono sbigottiti, spaventati.
I viddani sono di fronte all’altare, d’innanzi alla Natività.
Per un istante, ma solo uno, improvviso e che svanisce subito, i predatori rimangono intimoriti dalla bellezza dell’opera, bloccati.
Si riprendono immediatamente, l’unica cosa a cui credono veramente, sono i piccioli, i soldi.
La dimensione del dipinto è grande, tre metri per due.
Uno dei viddani si arrampica goffo sulla parete, estrae dalla tasca il serramanico, con un clik spunta la lama.
Clik, anche gli altri due compari tirano fuori i coltelli, questa volta non da usare sulla carne di altri cristiani ma per sfregiare l’Arte.
Quei buzzurri hanno le mani adatte a zappare o a strangolare – non di certo a toccare il sublime.
Sacrilegio, il bello è stuprato dalla bestia.
Le loro mani oltraggiano.
Le loro mani sporcano.
Le loro mani disonorano.
Maledetti, ma che stanno facendo? Non così per Dio! Animali maldestri! La rovinate così! Le lame penetrano l’estremità della tela, per staccarla dalla cornice.
La tagliano via, per rapire il Caravaggio.
Ma è un lavoraccio dozzinale, incerto, fatto in fretta e senza alcun riguardo.
Un lavoro da pecorari. I coltelli rovinano il capolavoro, per sempre.
Fuori dall’oratorio, il cielo è tuoni e fulmini. Arrotolano il bottino, come se fosse un tappeto.
Quelli lì son buoni a rubare galline, non pezzi da museo. Cani che non siete altro!
I balordi telano con la tela, e un puttino alla parete piange. Uscendo in strada, la pioggia è diventata furioso acquazzone, le gocce cadono sulle teste dei ladri e sul tesoro rubato, che viene gettato nel cassone.
L’acqua bagna il Caravaggio, e non gli fa bene.
La moto Ape, adeguato destriero per quegli Arsenio Lupin in versione stracciona, svicola nei meandri della vecchia Palermo. Il borbottio del motore si allontana sotto il temporale.
I miserabili l’han combinata grossa, hanno rapito Caravaggio.
Incredibilmente, solo il pomeriggio di sabato 18 ottobre 1969 viene scoperto il furto dalle sorelle Gelfo, le custodi dell’oratorio. Il furto è avvenuto la notte prima, e al mattino nessuno ci ha fatto caso.
Maria Gelfo, come tutti i sabati, va all’oratorio per fare le pulizie e prepararlo per la messa del giorno successivo. Già: quel luogo è aperto ai fedeli e ai visitatori solo alla domenica, per la funzione religiosa.
La donna guarda l’altare maggiore, è spoglio, le cade la scopa di mano, si mette le mani davanti alla bocca, si fa il segno della croce.
“Gesù!”
La denuncia viene fatta la sera di sabato, da don Benedetto Rocco, che ha la responsabilità ecclesiastica dell’oratorio. In questura gli uffici sono semideserti, è fine settimana.
La polizia non sa nemmeno dove cominciare le indagini.
Il questore Zamparelli, messo sull’attenti dal ministro dell’Interno Franco Restivo, anch’egli palermitano, ammette il brancolare nel buio.
La Palermo colta e per bene si mette le mani nei capelli. Ma come è diamine è possibile avere in casa propria una tale opera di importanza mondiale e lasciarsela soffiare da sotto il naso con una tale facilità e negligenza? Nemmeno una catena con lucchetto alle finestre… Nulla, così, con superficialità, menefreghismo, avarizia. Il prefetto Giovanni Ravalli ci va giù severo: “La responsabilità del furto è duplice, dell’autorità ecclesiastica, che aveva in custodia il dipinto, e della sovrintendenza alle Belli Arti.
Per quanto riguarda il clero, quando esso possiede opere d’arte, è indispensabile che ne affidi la custodia allo Stato, se non riesce a garantirla.
Per quanto riguarda, invece, la sovrintendenza alle Belle Arti, risulta che mai abbia sollecitato od imposto alle autorità ecclesiastiche l’adozione di particolari misure di sicurezza per la custodia delle opere d’arte.
In specie per il dipinto del Caravaggio, la sovrintendenza non ha mai ritenuto di interessare la questura per la sorveglianza.”
Insomma, a Palermo c’era un Caravaggio, e ora non c’è più. Pochi ne sapevano l’esistenza, e i pochi non hanno fatto nulla per proteggerlo. Nel frattempo, in una cantina in un’altra zona della città …
“Che avete combinato, teste di minchia?”
Il committente del crimine è in ginocchio davanti alla tela srotolata sul pavimento di terra nuda.
È viola di rabbia, gli tremano le mani.
Scoppia in lacrime.
Alle sue spalle, i due ladroni si guardano, non capiscono che cos’è che non vada bene. Sono scimuniti.
Il mandante non la vuole più, così ridotta, spiegazzata, forata, tagliata storta, fradicia, con l’acqua della pioggia che ha agito sui personaggi della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi come se fosse acido, sciogliendo volti e contorni.
Un disastro.
Il Caravaggio rapito passa in altre mani, e sono mani potenti e sporche di sangue.
Il sequestrato è cosa di mafia.
Ma dov’è finito? Gli hanno dato il colpo di grazia con il fuoco oppure soppravvive in qualche buco o cassa, malridotto ma ancora in vita?
Col titolo di “Pratica 799” troviamo un faldone: “Pratica 799” è l’intestazione delle indagini di ricerca.
La Pratica 799 contiene anni di caccia al tesoro, dichiarazioni di pentiti, soffiate, indiscrezioni, tesi, testimonianze, mitologia. È un giallo senza la parola fine.
Forse i ladri non hanno agito su commissione come quanto ricostruito con un po’ di fantasia nelle righe precedenti, con il mandante in lacrime sulla tela rovinata.
È possibile che i balordi abbiano deciso il colpaccio da soli, dopo aver visto una puntata della trasmissione RAI “I tesori nascosti d’Italia”, dedicata proprio all’opera del Caravaggio semi-dimenticata in un angolo dismesso della città.
Sono in un bar a vedere il televisore in bianco e nero, a fumare e a bere liquori.
Hanno l’illuminazione. Quel quadro è di uno famoso, deve valere un sacco di quattrini.
Prenderlo sarà un gioco da ragazzi.
A sottolineare l’improvvisazione cretina della banda di sgraffignatori da strada c’è la testimonianza di un ex-latitante, che all’epoca del crimine si era nascosto nell’appartamento di uno dei ladri.
Ai carabinieri che lo interrogano anni dopo, dice: “Il Caravaggio me lo ricordo bene, ci ho pure passeggiato sopra, visto che lo avevano srotolato nella stanza dove era sistemata la mia brandina. Ricordo che era rovinato in uno degli angoli, lo hanno strappato leggermente tirandolo fuori dall’ascensore.”
“Ci ho pure passeggiato sopra” . Incredibile, uno zoticone ha fatto due passi sopra la preziosissima Natività, sulle sue figure, magari per andare al cesso. Assurdo, un Caravaggio come scendiletto…
Nel 1969, all’epoca del ratto della Natività, nel quartiere comanda Giuseppe “Pippo” Calò, uno dei nomi più importanti nelle vicende di mafia. Il mandamento di Porta Nuova è feudo suo.
Si lega ai corleonesi di Luciano “Liggio” Leggio e Salvatore Riina, ambiziosissimi nel conquistare tutto il conquistabile [lo abbiamo raccontato qui].
Nella Kalsa, territorio del boss, non si muove foglia che Don Pippo non voglia.
Di sicuro, anche Calò, viene informato sulla scellerata vicenda dell’Oratorio di San Lorenzo.
I tentativi di vendita sono vari. Ma spacciare un Caravaggio non è la stessa cosa che vendere un’auto rubata. Non è roba da ricettatori di bassifondi.
Servono contatti internazionali, esperti d’arte, mercanti senza scrupoli.
E poi, a quale prezzo? Oggi qualcosa come 30-40 milioni di euro, in teoria. Ma che senso avrebbe?
Un ipotetico compratore dovrebbe occultarlo in un suo bunker privato, e goderne in solitaria: mica potrebbe vantarsene in giro, logico. Il Caravaggio diverrebbe un feticcio per potenti egoisti, un perverso capriccio per masturbare gli occhi.
Non lo si può esporre in salotto, è godimento esclusivo.
Però le vie dell’eccentricità sono infinite, qualche malvagio miliardario lo si può sempre trovare, e non solo nei film. Ad ogni modo sembra che gli sforzi mafiosi nel piazzare il dipinto non vadano a buon fine.
L’eccellente sequestrato che scotta rimane sull’isola. Le piste sono tante, ma trattandosi di un mistero irrisolto, non si può sapere quale sia verità e quale sia favola.
All’interno della famiglia criminale di Calò c’è un luogotenente di spicco, si chiama Gerlando “U Paccarè” Alberti, e a lui viene affidata la custodia del Caravaggio.
La tela viene inclusa nella riserva aurea del clan, insieme a chili di stupefacenti e mazzette di dollari alte così.
Un infiltrato, collaboratore del capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, viene in contatto con U Paccarè, che nel 1979 è un narcotrafficante di alto livello.
All’infiltrato viene offerto l’acquisto di un’opera d’arte.
Non si saprà mai se fosse la Natività: pochi giorni dopo difatti, Boris Giuliano viene ammazzato con sette colpi di pistola in un bar. A sparargli alla schiena, Leoluca “Don Luchino” Bagarella, cognato di Totò Riina, superkiller dei corleonesi e stragista.
L’anno successivo, secondo altre indiscrezioni mai verificate, ci sarebbe stato un affare con i cugini d’America. Assieme alla vendita ai clan nordamericani di una partita di 200 chili di morfina-base (ingrediente fondamentale per l’eroina) ci sarebbe stato il dipinto.
La trattativa da parte siciliana è condotta da “Mister G”.
Mister G altri non è che Gerlando Alberti, mercante di coca ed ero a Porta Nuova.
Caravaggio emigra nel Nuovo Mondo, magari finito alla parete di qualche paisà del New Jersey?
In realtà, nemmeno questo nuovo tentativo di liberarsi dell’opera sarebbe andato a buon fine. In questa vicenda in cui abbiamo pochissime certezze, sappiamo però che effettivamente fu Gerlando Alberti a tenere per tanti anni il quadro.
Suo nipote, Vincenzo La Piana, collaboratore di giustizia, indica il luogo di campagna dove è seppellito in una cassa di ferro, assieme a cinque chili di cocaina e diversi milioni di dollari.
Ma quando vanno a scavare, i carabinieri non trovano più la cassa. Il clan ha spostato il suo gruzzolo.
Il Caravaggio rapito non si trova. Nel 1980 entra in scena il giornalista e scrittore Peter Watson, intellettuale impiccione che vuole scrivere un libro sulla vicenda, e che avrà il titolo di The Caravaggio Conspiracy.
È aiutato da Scotland Yard, che lo istruisce per camuffarsi da ricco e spregiudicato collezionista britannico, Mister John Blake, danaruto e impallinato di pittura seicentesca italiana.
Lo aiuta anche un italiano, Rodolfo Siviero, “lo 007 dell’arte”, agente segreto specializzato nel recupero di opere rubate, che ha dedicato tutta la vita nel proteggere il nostro patrimonio.
Siviero suggerisce all’inglese il nome di un antiquario napoletano, che a sua volta mette in contatto lo scrittore con due individui.
Uno dei due è un siciliano pregiudicato e si trova in confino obbligato a Laviano, in provincia di Salerno, in Irpinia.
Viene fissato un appuntamento per il giorno del 24 novembre del 1980, per mostrare a Mister Blake l’opera. Ma la sera del 23 novembre, la terra d’Irpina trema. La scossa è violentissima, i borghi si sbriciolano, morte, macerie, scandalosi ritardi nei soccorsi e poi tanti anni di luride speculazioni avvoltoie.
Laviano è uno dei comuni più colpiti.
Il giornalista inglese riuscirà a raggiungere il paese devastato solo una settimana più tardi.
Ma non c’è più nulla, solo rovine. Anche il Caravaggio rapito potrebbe essere una vittima del terremoto, seppellito laggiù, perso per sempre.
In parallelo alle ricerche, Cosa Nostra compie la sua tragica epopea, con le belve di Corleone come attori principali. Mattanze, racket, potere, fiumi di denaro, cemento illecito, collusioni con la politica, assalti allo Stato.
Nell’autunno del 1991, lo stato maggiore della criminalità siciliana, guidato da Riina e Provenzano, opta per una nuova strategia, rivelatasi poi negli anni fatale per tutta la Cupola corleonese.
I boss scelgono il terrorismo.
Vogliono uno scontro diretto contro le istituzioni della Repubblica.
Guerra.
Gli attacchi sono tremendi.
Bombe a Capaci e in via D’Amelio: la mafia osa l’inosabile, delirio di onnipotenza, vuole mostrarsi più forte dell’Italia, fa strage di giudici e poliziotti, pretende che lo Stato riconosca l’autorità del potere parallelo malavitoso, sedendosi con esso al tavolo di un’indicibile trattativa.
Ammazzare i due giudici, famosi e storici nemici in prima fila a combattere quell’esercito di criminali, non è sufficiente.
Colpiscono il nostro patrimonio, aggrediscono il bello, è il terrore dei bifolchi malvagi contro il sacro, che è l’Arte. La notte del 27 maggio 1997 un’autobomba scoppia a Firenze in via dei Georgofili, presso la Galleria degli Uffizi.
Altri scoppi avvengono due mesi dopo contro il Padiglione d’arte contemporanea di Milano e le chiese romane di San Giorgio in Velabro e di San Giovanni in Laterano.
Dinamite contro gioielli. Un giudice si sostituisce; un capolavoro è perso per sempre. Lo volete capire a Roma o no?
A distanza di un quarto di secolo dal furto della Natività i picciotti tornano a stuprare la cultura italiana. È in atto un ricatto terrorista.
In questa strategia criminale comparirebbe a margine anche la faccenda del Caravaggio rapito. Giovanni Brusca, “lo scannacristiani”, macchina di morte responsabile di dozzine di omicidi (tra i 100 e i 200 ammazzati), dopo che viene acciuffato e a seguito del suo pentimento dichiara ai giudici che lo interrogano che il quadro rubato fu offerto allo Stato per alleggerire le condizioni del carcere duro, il 41bis.
Offerta rifiutata da uno Stato che ora si mostra molto determinato a chiudere la partita con i corleonesi.
Altri pentiti parlano, forniscono altre versioni. Suggestiva e cinematografica è la possibilità che la Natività sia usata nei summit di mafia come stendardo di potere.
Povero Caravaggio, ridotto ad un drappo di ostentazione, messo in un angolo di una stalla di una masseria, come un re in catene, mentre grassi banditi trattano di affari sporchi e cospirano.
Durante il processo del ’96 al senatore Giulio Andreotti, Francesco Marino Mannoia, detto “Mozzarella”, esperto in raffinazione di eroina e narcotrafficante, dice di essere stato lui l’autore materiale del furto dall’Oratorio. Confessa di aver rovinato la tela irrimediabilmente quella notte del 1969.
Caravaggio sbriciolato.
Ma è un equivoco, Mozzarella si ricorda male e non è di certo un critico d’arte.
L’opera che lui distrugge è un’altra, dipinta da Vincenzo degli Azani, noto anche come Vincenzo da Pavia, e trafugata dalla chiesa dei Santissimi Quaranta Martiri dei Pisani alla Guilla, e non dall’Oratorio di San Lorenzo.
Iconografia simile, sempre di Natività si tratta, ma tre metri più grande e cosa più importante, non si tratta di un Caravaggio.
Mozzarella è smentito.
L’ultimo capitolo a questa storia viene aggiunto dalle dichiarazioni del sicario Gaspare “u Tignusu” Spatuzza che in tribunale, nel 2009, afferma che il Caravaggio rapito è stato affidato al clan dei Pullarà. Gente indegna a custodire un tal tesoro.
La nascondono in una stalla di campagna.
Tra i topi e i maiali.
Pensate, un Caravaggio tra topi e maiali, che sgranocchiano la tela.
Un capolavoro ridotto a cracker per porci e ratti.
I miseri resti della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi vengono dati alle fiamme. Il cadavere del sequestrato brucia, pezzi di cenere volano in aria e si dissolvono per sempre nella provincia di Palermo.
Se le cose sono andate davvero in questo modo, beh, c’è da incazzarsi a morte. Distruggere, anzi uccidere in modo così volgare e barbaro un’opera che sarebbe dovuta appartenere a tutti, è un crimine odioso.
Chi uccide un’opera d’arte colpisce l’intera collettività, compie strage di ciò che è bello, che è eterno, dà la morte a ciò che doveva essere immortale, sfregiando un pezzo del nostro patrimonio artistico, il bene più prezioso che l’Italia possiede.
Chi scrive è sempre stato distante dagli umori popolari vogliosi di gogne e forche per i fatti di cronaca nera più eclatanti; in questo caso invece agli autori dello scempio verrebbe voglia di imbarcarli su un viaggio aereo di sola andata al largo delle coste mediterranee, aprire il portello, e gettarli ai pesci.
Ma i pentiti di mafia non sempre dicono la verità, spesso mentono: come ci si può fidare ciecamente della parola di briganti, peraltro pronti a vuotare il sacco su qualunque cosa – dal loro punto di vista – un PM sia ansioso di ascoltare?
Soppravvive la speranza.
Speriamo allora che il Caravaggio rapito sia ancora recluso, sotterrato in una cassa del tesoro dei pirati, o occultato in un muro di un vecchio rudere, o sulla parete di una stanza-caveau di qualche vecchio bastardo.
Meglio pensarlo prigioniero piuttosto che distrutto per sempre.
Federico Mosso
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