Sono passati quasi due mesi da Italia-Svezia. Due mesi nel quale nessuno, al di là dei proclami di rifondazione, ha fornito una spiegazione di cosa sia andato storto.
Fermarsi all’inadeguatezza di Ventura, all’impresentabilità di Tavecchio o alle colpe dei club che investono soltanto in calciatori stranieri è semplicistico, oltre che autoassolutorio. Di fronte a noi due fatti.
Il primo:
- per la prima volta dal 1958, l’Italia non parteciperà a un’edizione dei mondiali di calcio.
Un fatto a suo modo storico, ma accidentale e temporalmente marginale – tra quattro anni gli azzurri avranno una nuova chance.
Il secondo rappresenta molto più fedelmente lo stato attuale del calcio italiano:
- se anche l’Italia potesse parteciparvi, non avrebbe alcuna chance di vittoria.
Il 2018 della F.I.G.C dovrebbe partire da quest’ultima constatazione – che difatti nessuno, anche prima del play-off contro la Svezia, ha tentato di smentire – molto più significativa della non-qualificazione al mondiale.
La crisi del calcio italiano è molto più ampia di un play-off perso, ha radici profonde e soprattutto esterne al rettangolo di gioco. Esse affondano nel terreno politico-organizzativo ed economico del pallone: dal lavoro sulle giovanili al sistema delle cosiddette primavere e fino all’inserimento dei calciatori nelle prime squadre.

Certamente – e lo abbiamo detto e visto tutti, compreso Ventura – c’è un fatto tecnico: la scarsa qualità della rosa convocabile. Assistiamo a un processo generazionale sul quale nessun c.t. può avere il controllo.
Storicamente i calciatori italiani raggiungono il loro picco prestazionale tra i 26-27 e i 32-33 anni. Oggi l’Italia ha buoni e forse ottimi giocatori, ma non possiede fuoriclasse appartenenti a quella finestra generazionale, grossomodo 1984-1990. Non ne ha soprattutto dal centrocampo in su, il settore di campo in cui le grandi squadre segnano la differenza con le buone e le mediocri.
Emergono a questo punto due interrogativi:
- Capire cosa sia successo alla generazione dei secondi anni ’80;
- Posto che all’estero a 22-23 anni non esistono potenziali campioni – o lo sei già o non lo sarai mai –, comprendere quali meccanismi facciano sì che in Italia a 25-26 anni si debba ancora crescere e maturare.
Mi viene più facile partire dal punto b, perdonatemi.
La disabitudine all’obbligo della vittoria

Pochi under 23 italiani – disclaimer: per “italiani” in questo articolo si intendono tutti coloro che sono convocabili dalla nazionale di calcio dell’Italia. Stop – giocano in società che scendono in campo ogni domenica per vincere: a oggi Juventus, Napoli, Roma.
All’analisi aggiungiamo che, di queste, soltanto la Juventus possiede un’abitudine storica alla vittoria.
L’esperienza nella grande squadra forgia alla competizione sportiva ad alti livelli. Trasmette gli elementi che definiscono il salto di qualità tra un giocatore normale e un campione: la voglia di vincere, la continuità di rendimento, la concentrazione e la costanza nel lavoro quotidiano.
Vincere non è un mero fatto tecnico, ma un’abitudine. Un professionista deve convivere con la vittoria e con l’idea di essa – con le pressioni, le aspettative, le gioie e le tensioni che ne scaturiscono.
L’Italia non ha giocatori abituati a dover vincere.
La carriera di Immobile, uno dei due attaccanti titolari contro la Svezia (l’altro era Gabbiadini) e perno della nazionale targata Ventura è paradigmatica per analizzare quel piccolo ma fondamentale gradino che separa la carriera di un calciatore medio a uno da top club.
Pur non trattandosi di un talento puro, Immobile è un attaccante di grandissimo valore, versatile ed estremamente prolifico.
È esploso a 23-24 anni con il Torino, in una stagione da oltre 20 reti.
Il suo trasferimento al Borussia Dortmund era stato immediatamente bollato come l’ennesima opportunità mancata da un top club italiano di fondare le proprie fortune sulle spalle di un centravanti nostrano: ad esempio la Juventus, che quell’estate gli aveva preferito un giovane spagnolo riserva del Real Madrid neo-campione d’Europa, Morata. In Germania Immobile non ha reso secondo le aspettative, così come al Siviglia la stagione successiva.
Le ragioni di questi fallimenti non sono chiare: difficoltà di lingua, incomprensioni o incompatibilità con i tecnici e con il calcio locale, immaturità; magari oggi le cose andrebbero diversamente.

La realtà però ci dice che uno dei migliori attaccanti italiani di questi anni Dieci– negli ultimi due campionati di Serie A disputati per intero ha segnato rispettivamente 22 e 23 reti (e quest’anno siamo a 16 in 17 presenze) – ha fallito le proprie chance in due delle piazze più competitive del calcio europeo del XXI secolo.
Il fatto che oggi, a 27 anni – e in perfetta media con gli standard italiani – Immobile sia la stella di una squadra di medio-alta classifica come la Lazio definisce probabilmente il valore assoluto dell’ex Torino: non un centravanti da top club, ma un’eccezionale risorsa per una squadra che, senza obblighi di vittoria, punta a piazzarsi a ridosso delle prime tre quattro forze del campionato.
Il giudizio vale per Immobile così come per la stragrande maggioranza dei nazionabili: militando in squadre di seconda fascia, non deve gestire quotidianamente lo stress, le vertigini e le difficoltà del calcio ad altissimo livello e non ne acquisisce la mentalità vincente.
Potrebbe esserci una ragione tecnica: ci sono giocatori stranieri che giocano al posto dei nostri nelle squadre migliori perché semplicemente più forti.
Il dubbio nasce quando ci si accorge che anche coloro che avrebbero gli strumenti e le qualità adeguate approdano ad alti livelli troppo tardi.
Il gap nella maturazione della Giovine Italia
In Italia si legge spesso riguardo ai giovani talenti che dopo una grande stagione in provincia il trasferimento in una grande squadradeve accompagnarsi alla certezza della titolarità o comunque di un certo numero di partite disputate.
La realtà dice che, se affrontato con la giusta attitudine, l’anno di apprendistato nelle grandi squadre dà un valore aggiunto al calciatore. Al contrario, il secondo-terzo anno in provincia è spesso dannoso: aumentano le pressioni legate agli obblighi di riconferma e calano le motivazioni – si vedano le parabole di Berardi al Sassuolo o di Belotti al Torino.
In ogni caso, l’approdo tardivo nel calcio di prima fascia non contribuisce ad altro che a scavare quel gap con i giovani europei che compiono lo stesso percorso in media 3-4 anni prima.
Chi pensa di incolpare i club italiani per questa situazione compie il classico esercizio del guardare il dito mentre qualcuno indica la luna. Se Juventus, Inter, Napoli e Roma non schierano giovani italiani, o lo fanno con molta parsimonia, è perché non ne vedono di acquistabili in un’ottica di competitività.
Giungiamo dunque alla radice del problema: svezzare le giovani promesse non dovrebbe essere compito delle prime squadre dei club. A queste dovrebbero essere consegnati giovani di 21-22 anni già pronti.
Ma qui entra in gioco, nuovamente, la Federazione.
Le seconde squadre sono un tema molto dibattuto.
Si tratta, sostanzialmente, di aprire il calcio professionistico delle leghe minori alle cosiddette Primavere. La logica vorrebbe che, se si ha l’obiettivo di iniziare i neo-maggiorenni alla sostanza del calcio professionistico, sarebbe opportuno che si misurassero con essa il prima possibile.
Questo tema è, attualmente, in Italia, soltanto dibattuto. Manca la cosiddetta volontà politica di metterlo in pratica – perché le seconde squadre toglierebbero spazio e quindi fondi alle piccole realtà di provincia del nostro calcio.

Insieme a quello sulle infrastrutture, il dibattito sul calcio giovanile è attualmente il più delicato per i vertici dello sport in Italia. Da anni la narrazione sportiva italiana racconta il dominio di tedeschi e spagnoli sulla scena calcistica internazionale senza riuscire a stimolare un’analisi dei loro modelli di lavoro e – perché no? – un tentativo di emulazione.
Sembra passare il messaggio che le differenze qualitative tra noi e loro siano dovute a un dato di natura: se gli spagnoli sono superiori nel possesso palla è perché sono più talentuosi, ad esempio.
In realtà il maggior tasso tecnico degli spagnoli rimane comprensibile soltanto se lo si circostanzia a una metodologia di lavoro diversa – quale che sia – e più efficace della nostra.
Nello sport professionistico, oggi – qualsiasi sport professionistico – emergere ed eccellere non sono mai fatti di talento. Occorre preparazione, né più né meno di quella necessaria per una carriera da economista, ingegnere, medico o insegnante.
Gli strumenti da affinare sono diversi: c’è l’aspetto fisico, quello tecnico, quello mentale, quello motivazionale e persino quello comunicativo. La domanda che in Federazione ci si dovrebbe porre è la seguente: il sistema calcio è in grado oggi di preparare i campioni dell’Italia di domani?
Dopo il fallimento a Euro 2000, la Germania ha scelto di sostenere il calcio attraverso la realizzazione di un progetto federale: standard qualitativi stabiliti dalla Federazione in merito alla formazione dei giovani calciatori imposti ai club delle principali leghe professionistiche.
Concetti chiave:
- progetto federale
- standard qualitativi
- formazione
- imposizione ai club
L’Italia è rimasta alla concezione naif dello sport per cui è sufficiente la stoffa per affermarsi – solo così la narrazione della generazione senza talento può avere senso.
Al contrario, invece: se la generazione dei secondi anni Ottanta non ha visto le eccellenze del decennio prima – quello dei Del Piero,Totti, Pirlo etc… -, la causa è da ricercare nell’incapacità del calcio italiano di adeguarsi alle sfide del nuovo millennio.
Mentre Germania e Spagna hanno investito, in modo diverso (a riprova che non esiste un’unica via) sui settori giovanili, sull’insegnamento e sullo sviluppo di determinati concetti calcistici e sul professionismo dei giovani calciatori, l’Italia ha gestito la supremazia degli Novanta – gli anni in cui per 7 edizioni ha portato una squadra in finale di Coppa Campioni/Champions League – senza progettare il futuro.
Con il risultato che mentre oggi la Germania potrebbe schierare quattro differenti undici titolari ed essere comunque competitiva sul palcoscenico internazionale, il nostro commissario tecnico nelle interviste dice che semplicemente che non siamo abbastanza forti.
Che il discorso pubblico sia focalizzato sui nomi del nuovo presidente e del nuovo commissario tecnico ha senso ed è quanto mai opportuno.
La speranza è che nel 2018 il dibattito non si limiti alla ratifica di nomine più o meno altisonanti – Ancelotti come commissario tecnico, Tommasi come presidente della Federazione -, ma discuta seriamente del problema di fondo: la prolungata mancanza di competitività del calcio italiano.
Maurizio Riguzzi