I provvedimenti economici di Joe Biden e la lezione dei “radicali” democratici alla sinistra europea

Big and fast: sono state queste le parole d’ordine che hanno caratterizzato i primissimi mesi di Biden alla Casa Bianca, con una presidenza che ha voluto iniziare il suo mandato con un intervento forte e deciso in un paese piegato dagli effetti della pandemia sul versante sanitario ed economico. Troppo forte, in casa democratica, è stato il timore di veder ripetere il fenomeno 2008, con Barack Obama che pagò elettoralmente la timidezza con cui fronteggiò la crisi economica, andando incontro ad una disastrosa sconfitta alle midterm successive, quando dilapidò un enorme vantaggio al Senato e perse il controllo della Camera.

Biden ha scelto un approccio totalmente differente, volto alla salvaguardia soprattutto delle classi medie e dei lavoratori, puntando alla costruzione di una società non fondata unicamente per chi è in alto. Per questo ha spinto il Congresso ad approvare un enorme pacchetto di stimolo da 1.9 trilioni di dollari, facendo arrivare direttamente i soldi nelle tasche dei cittadini americani, implementando anche la battaglia sui fronti del salario minimo e su quello dell’aumento della tassazione per grandi corporation e cittadini ad alto reddito al fine di finanziare un grande piano infrastrutturale nel paese.

Tutto questo è stato possibile anche per un fenomeno particolarmente interessante, che può servire come elemento di studio e di confronto anche per una sinistra mondiale a caccia di una bussola: ovvero il dialogo che l’anima moderata del Partito Democratico è stata in grado di instaurare con l’ala progressista.

Qualsiasi analisi del movimento progressista americano deve partire da una considerazione: si tratta di una minoranza, sia negli Stati Uniti che all’interno del Partito Democratico. Sebbene la popolazione che si dichiara liberal sia cresciuta negli ultimi anni, sia in termini numerici che di visibilità, non è mai stato in grado di conquistare la maggioranza degli elettori.

I dati che lo dimostrano sono diversi: nonostante alle scorse primarie democratiche Bernie Sanders sia stato per un certo periodo in testa ai sondaggi, la somma delle preferenze del frastagliato campo moderato superava quelle del senatore del Vermont.

C’è poi un altro aspetto fondamentale da tenere in considerazione: nonostante tutto, il Partito Democratico ha intrapreso un evidente spostamento verso sinistra nel corso degli ultimi anni. Guardando i dati di FiveThirtyEight, si può notare come la percentuale di democratici che sostengono la necessità di uno stato più attento alla tutela dei cittadini è cresciuta di dodici punti dal 1986 al 2018, ma ancora maggiore è l’aumento di coloro che credono che l’immigrazione sia una risorsa da sfruttare e che gli Stati Uniti debbano offrire riparazioni alle popolazioni afroamericane per i decenni di sfruttamento.

Questo spostamento è frutto soprattutto dell’impegno della popolazione bianca e ben educata. Nell’ultima tornata elettorale è avvenuto un fattore quasi sorprendente, o comunque non previsto in gran parte dei sondaggi pre-voto: lo spostamento verso Donald Trump di parte delle minoranze. Questo vale soprattutto per gli ispanici (decisivi nelle sconfitte di Biden in Florida e Texas), ma per certi aspetti anche per gli afroamericani.

Sia chiaro, soprattutto il secondo gruppo sociale ha votato ancora in maniera compatta per i democratici, ma lo spostamento verso Trump appare è in ogni caso sorprendente. Ed è determinato principalmente da fattori culturali e religiosi, giacché si tratta di un elettorato maggiormente religioso e conservatore, che ha votato il partito dell’asinello per principio ma che non ha mai visto di buon occhio lo spostamento verso sinistra.

L’aspetto più interessante, però, sta in quanto accaduto dopo le primarie democratiche.

A differenza di quanto fatto quattro anni fa con Hillary Clinton, Bernie Sanders ha offerto sin da subito il suo supporto a Joe Biden per la campagna presidenziale. Perché battere Donald Trump rappresentava un’assoluta priorità, ma anche per un clima interno che favoriva il dialogo fra le parti.

Non era facile prevedere un rapporto roseo fra Joe Biden e questa parte del partito, ma le cose stanno andando meglio del previsto: non si può certo parlare di luna di miele, perché su molti aspetti permangono distanze e divisioni, ma il rapporto è comunque buono ed ha portato a passi avanti sul piano legislativo, nonostante le prime grane che stanno pian piano emergendo.

Già a partire dalle nomine fatte da Joe Biden per la sua amministrazione, è apparsa chiara la sua volontà di non includere solamente esponenti del vecchio establishment, ma anche elementi provenienti dal mondo progressista e del sindacato.

Inizialmente si era parlato anche della possibilità di inserire in un ruolo di primo piano lo stesso Sanders, sfumata però per questione di equilibri. Al Senato, infatti, vige una perfetta parità con cinquanta senatori a testa per entrambi i partiti: in questo modo, in caso di una mancata maggioranza, scatta il voto decisivo della vice-presidente Harris che sposta l’ago della bilancia a favore dei democratici.

 

In ogni caso, il dialogo non si è fermato alla nomina di membri progressisti nei ruoli chiave (lo stesso Sanders, in ogni caso, è stato assegnato ad una delle commissioni più potenti del Senato). L’enorme pacchetto di stimolo approvato per fronteggiare l’emergenza dovuta alla pandemia vede una forte impronta dell’ala progressista, che ha spinto per l’approvazione di una misura volta soprattutto alla tutela dei lavoratori e delle persone più fragili.

C’è poi la grande battaglia intorno al salario minimo, bandiera dei progressisti che l’intero Partito Democratico sta portando avanti. La misura era stata inizialmente inserita nel pacchetto di stimolo, salvo poi essere esclusa prima dell’approvazione al Senato: in quest’ultima camera del Congresso, infatti, vale la regola del filibuster, con la quale l’opposizione repubblicana può di fatto bloccare qualsiasi proposta non abbia 60 voti (in questo caso servirebbero 10 senatori del GOP).

L’unico modo per evitarla (e quindi portare a casa il pacchetto di stimolo) era quella di usare la reconciliation budget, una particolare procedura che può essere utilizzata solo in determinati casi ed esclusivamente per questioni economiche. Strumento con il quale non poteva essere approvato il salario minimo, momentaneamente accantonato per mancanza di numeri.

Un altro punto di convergenza è il piano sulle infrastrutture, volto a modernizzare il paese e ad imprimere una svolta green, divenuto uno dei punti cardini portati avanti da Joe Biden. Per portarlo avanti il presidente ha proposto un aumento della corporate tax, pensata dal Segretario al Tesoro a livello globale coordinando le nazioni più grandi, in modo da impedire fughe di capitali.

Certo, rimangono punti di divisione e distanze difficili da colmare: l’ala progressista, ad esempio, spinge per l’abolizione del già citato filibuster, che permetterebbe di avere mano decisamente più libera su molti temi senza dover contrattare con i repubblicani. Un tema su cui Biden va però con i piedi di piombo, aprendo a possibili modifiche ma rimanendo fermo sulla promessa di non toccare troppo lo strumento, fatta per tutta la campagna elettorale.

In conclusione, cosa ci insegnano questi mesi? Mostrano un risultato interessante di un movimento che, seppur importante e diffuso in tutto il paese, non rappresenta la maggioranza né interna al suo partito né nel paese. E che nonostante questo è riuscito ad occupare uno spazio importante nel panorama politico, contribuendo al processo di spostamento verso sinistra dell’intero mondo che ruota intorno ai democratici.

Causato da numerosi fattori, ma che ha visto anche l’influenza di un movimento che nel tempo è riuscito a conquistarsi il suo spazio con l’organizzazione, il lavoro sul territorio e soprattutto battaglie forti e radicali sui temi che hanno coinvolto giovani e meno giovani.

Una lezione che potrebbe tornare utile anche per una sinistra che, da questa parte dell’oceano, fatica ad imprimere la sua influenza nei posti che contano e che fatica non tanto a portare avanti le sue battaglie, quanto a farle ascoltare ed arrivare in alto, finendo per farle perdere nelle numerose secche dei dibattiti parlamentari.

 

Raffaele Digirolamo