Fisica: perché Stephen Hawking è stato un genio

La teoria di Stephen Hawking spiegata a mia madre

Di Stephen Hawking, spentosi alcuni giorni fa all’età di 76 anni, la maggior parte della gente sa poche cose: la maggior parte si limita a sapere che era un astrofisico che viveva su una sedia a rotelle e parlava attraverso un computer. Quelli che hanno visto “La teoria del tutto”, il film che racconta la storia della sua vita interpretato da Eddie Redmayne (che proprio grazie a questa pellicola ha vinto l’Oscar come miglior attore), sapranno anche qualcosa della vita personale e familiare di Hawking, e del fatto che la sua ricerca scientifica si concentrava sui buchi neri.
Difficilmente qualcuno che non abbia una formazione scientifica di livello universitario ha realmente un’idea del perché il lavoro di Stephen Hawking come fisico è stato importante, e questo per un ottimo motivo: che il lavoro di Hawking, come la maggior parte della fisica contemporanea, riguarda cose estremamente complicate.

Stephen Hawking durante l'intervista di John Oliver a Last Week Tonight
Stephen Hawking durante l’intervista di John Oliver a Last Week Tonight

Quindi, siccome a me piacciono le sfide, provo a spiegarvele.
Iniziamo a smontare una superstizione popolare: Stephen Hawking non ha scoperto i buchi neri.
I buchi neri sono stati teorizzati la prima volta addirittura nel 1783, quando John Michell suggerì a Henry Cavendish (entrambi pionieri dello studio della gravità: a Cavendish si deve la prima misura della costante di gravitazione universale) che potessero esistere oggetti con una massa alta, molto alta.
Così alta che la velocità necessaria per allontanarsi da essi, ossia la velocità per sfuggire alla loro gravità (che in fisica viene chiamata velocità di fuga), arriverebbe ad essere maggiore della velocità della luce.
All’epoca tali oggetti vennero chiamati Dark Star (Stelle Oscure), in quanto se la luce non è in grado di allontanarsi da essi, noi li vedremmo come neri.

Nel 1905 Einstein dimostra che la velocità della luce nel vuoto è la velocità-limite dell’universo, e quindi che se la luce non può sfuggire ad una stella oscura, allora niente può farlo. Successivamente, nel 1915, sempre Einstein pubblica la teoria della relatività generale.
In tale teoria (che ha ricevuto tutte le possibili conferme sperimentali, l’ultima due anni fa con la scoperta delle onde gravitazionali), si dimostra che la presenza di una massa incurva lo spazio-tempo. Abbiamo anche già spiegato come questa curvatura sia concettualmente simile alla deformazione che si produrrebbe sulla superficie di una panna cotta appoggiandoci sopra delle biglie, o delle palle da biliardo.

Nel 1916 un signore chiamato Schwarzschild riesce a risolvere le equazioni con cui Einstein descrive la curvatura dello spazio-tempo, riuscendo quindi a descrivere con precisione il campo gravitazionale generato da una distribuzione di massa sferica. La sua soluzione però presenta un’anomalia: se una massa viene concentrata entro un raggio molto piccolo (chiamato proprio Raggio di Schwarzschild: qui la parola “raggio” viene usata nella sua accezione geometrica), le soluzioni dell’equazione assumono dei valori infiniti (matematicamente si dice che divergono), il che dal punto di vista fisico ha poco senso.
Il raggio di Schwarzschild dipende dalla stessa massa del corpo, quindi – a differenza delle stelle oscure teorizzate nel 1783 – perché un corpo diventi una “stella oscura” non occorre che abbia una massa enorme, occorre che la sua massa sia concentrata in uno spazio molto piccolo.
Riprendendo l’esempio delle palle sulla panna cotta, una stella oscura sarebbe una palla talmente pesante da creare una voragine nella panna cotta dalla quale niente sarebbe in grado di uscire: da qui il termine Buco Nero.
Per capire meglio quello di cui stiamo parlando, il Raggio di Schwarzschild della Terra è di circa 8 mm: questo vuol dire che per trasformare la Terra in un buco nero dovremmo concentrare l’intera massa terrestre in una sfera di raggio pari a meno di un centimetro.

Successivamente altri fisici (tra cui Subrahmanyan Chandrasekar e Robert Oppenheimer) dimostrarono che il collasso di stelle di massa superiore ad un certo limite poteva generare dei buchi neri.
Per finire, negli anni ’60, venivano scoperti i primi buchi neri, tramite osservazioni indirette (già, perché se un buco nero non fa uscire nemmeno la luce, “vederlo” è impossibile. Tuttavia si possono osservare gli effetti della sua enorme forza gravitazionale sui corpi celesti circostanti).

Ora viene il bello: la gravità, si è detto, deforma lo spazio tempo. Quindi in prossimità di una massa estremamente concentrata, io non ho solo un incurvamento dello spazio, ho anche un rallentamento del tempo.
Se io mi avvicinassi ad un buco nero, il mio tempo sarebbe rallentato e, come conseguenza, io vedrei tutto il resto dell’universo andare sempre più veloce… fino a quando non mi fossi avvicinato così tanto da vedere ogni cosa andare alla velocità della luce.
Allo stesso modo, il resto dell’universo vedrebbe me avvicinarmi al buco nero rallentando sempre di più, fino a fermarmi ad una certa distanza.
Naturalmente, io non mi sarei realmente fermato, ma il resto dell’universo vedrebbe il mio tempo fermarsi, e oltre quella distanza la mia immagine non riuscirebbe più a sfuggire alla forza di gravità. Proprio perché tutto ciò che avviene superata quella distanza critica non si può conoscere al di fuori (le informazioni viaggiano con la luce, e la luce non può uscire), alla distanza critica è stato dato un nome particolarmente poetico: Orizzonte degli Eventi.

La NASA rappresenta così i buchi neri

Tutto chiaro no? No. Proprio per niente. I buchi neri sono tutt’ora degli oggetti estremamente misteriosi, e il primo motivo è proprio il fatto che è impossibile ogni forma di osservazione diretta di uno di essi. Ma problemi non finiscono qui.
In generale, i buchi neri sono oggetti con una densità e una forza di gravità estremamente alte: questo significa che le particelle si trovano ad occupare letteralmente tutto lo spazio possibile, e nel farlo dovranno interagire tra di loro. Solo che le leggi che governano l’interazione tra particelle a gravità così alta sono per il momento tutte allo stadio di ipotesi, visto che l’interazione tra particelle è governata dalle leggi della Meccanica Quantistica, mentre la gravità è descritta dalla Relatività Generale, e le due teorie non funzionano molto bene assieme.
Sono state avanzate diverse teorie che unificherebbero la Relatività Generale con la Meccanica Quantistica, ma per capire quale di esse è valida bisognerebbe proprio osservare dentro ad un buco nero il comportamento delle particelle, e questo ci riporta al problema principale: non si può guardare dentro.

E i problemi non sono ancora finiti. Ve n’è (almeno) un altro, più sottile dei precedenti: la Meccanica Quantistica si basa su un principio fondamentale, detto Principio di Unitarietà.
Esso afferma, in buona sostanza, che sì, un sistema quantistico ignoto si può trovare in uno stato che è contemporaneamente A e B, ma nel momento in cui si effettua una misura si troverà con certezza matematica o nello stato A o nello stato B.
L’unico modo di riportare il sistema in uno stato misto è quello di effettuare una nuova misura su una variabile diversa (ottenendo ad esempio uno tra C o D) che distrugga l’informazione che avevamo su A o B: un esempio di queste variabili per le quali la misura di una distrugge le informazioni sull’altra sono la posizione e la velocità di una particella (il ben noto Principio di Indeterminazione di Heisenberg).

Il miliardario Richard Branson, il “Signor Virgin”, organizzò un viaggio su un aereo capace di riprodurre le condizioni di gravità zero per Stephen Hawking

Tuttavia, per distruggere un’informazione, devo necessariamente acquisirne un’altra: la quantità totale di informazione non cambia, e questo è un principio importante della Meccanica Quantistica… che i buchi neri sembrerebbero violare.

Immaginiamo infatti che un sistema fisico si trovi nello stato A, e mentre si trova in questo stato superi un Orizzonte degli Eventi; dopo aver superato l’Orizzonte degli Eventi, interagisce con un altro sistema, e a seguito di questa interazione il secondo sistema collassa nello stato C, mentre il primo sistema viene portato in uno stato misto. L’informazione relativa al secondo sistema nello stato C non può uscire dall’Orizzonte degli Eventi, quindi mentre l’informazione su A viene persa, l’informazione su C non viene conosciuta: la quantità totale di informazioni non viene conservata.
Abbiamo un problema.

Si può vedere la cosa da un’altra prospettiva, senza coinvolgere il principio di unitarietà: la termodinamica infatti ci insegna che più è elevato il numero di stati possibili nei quali un sistema si può trovare, più è elevata la sua entropia. L’entropia, in un certo senso, misura l’incertezza sulla quantità di informazioni possibili: ad esempio, se immaginiamo di lanciare sei dadi, l’entropia relativa al lancio di dadi è proporzionale al numero di risultati possibili (più precisamente, è proporzionale al logaritmo del numero di risultati possibili, dove la costante di proporzionalità è la Costante di Boltzmann). Eh, lo so, la scienza è complicata.
Il secondo principio della termodinamica afferma che l’entropia nell’universo aumenta sempre, e che i processi naturali avvengono sempre in modo da far aumentare l’entropia il più possibile: ad esempio, il calore fluisce dai corpi più caldi ai corpi più freddi (il che rende il moto delle particelle più caotico), se tolgo il cucchiaino dalla tazza di caffè il caffè dopo un po’ smette di girare (quindi le particelle si muovono in direzioni caotiche, mentre prima andavano tutte nella direzione del cucchiaino), e via dicendo.

Ora, immaginiamo di far sparire uno dei nostri sei dadi: il numero di risultati possibili lanciando cinque dadi è ovviamente inferiore al numero di risultati possibili lanciandone sei.
La “sparizione” di un dado equivale ad un sistema fisico che entra nell’Orizzonte degli Eventi: di fatto sparisce. Questo significa che il numero di risultati possibili dei dadi rimanenti, ovvero l’entropia del resto dell’universo, dovrebbe diminuire – il che, manco a dirlo, viola il secondo principio della termodinamica.
L’unico modo di salvaguardare quest’ultimo è che il buco nero abbia una sua entropia, e che questa aumenti quando il buco nero acquisisce nuova massa.

Questo è stato il primo ambito di indagine in cui Stephen Hawking ha dato dei contributi fondamentali: affinché i buchi neri siano fisicamente possibili, e sappiamo che lo sono, essi devono avere un’entropia, e questa deve aumentare quando qualcosa oltrepassa l’Orizzonte degli Eventi, per compensare la perdita di entropia del resto dell’universo.
Nonostante l’aumento di entropia correlato all’aumento di massa faccia pensare ad un’entropia proporzionale al volume, Stephen Hawking (assieme ad un altro scienziato, Jacob Bekenstein) determinò che l’entropia di un buco nero è in realtà proporzionale alla sua superficie (quindi al quadrato, e non al cubo, del raggio). L’esistenza di un’entropia dei buchi neri ci consente quindi di salvaguardare il secondo principio della termodinamica: bene!
Ma non abbiamo ancora risolto il problema quantistico della perdita di informazioni!

Nel 1974, Stephen Hawking ebbe un’altra importantissima intuizione relativa ai buchi neri: sempre partendo da considerazioni termodinamiche, intuì che un buco nero dovrebbe essere in grado di emettere radiazione elettromagnetica. E qui un lettore con un po’ di sensibilità scientifica dovrebbe sobbalzare sulla sedia: non abbiamo detto fino ad ora che un buco nero è un oggetto che assorbe tutto e non fa uscire nulla?
Infatti!

Il processo di emissione è legato ad un argomento estremamente complicato, che ancora una volta tento di semplificare al massimo.
Abbiamo visto prima che in Meccanica Quantistica esistono quantità che non possono essere conosciute contemporaneamente, come la posizione e la velocità di una particella: si può dimostrare facilmente che un’altra coppia di grandezze “incompatibili” sono l’energia e il tempo.
Ma allora questo significa che un volume di spazio vuoto non può possedere energia nulla ad ogni istante, perché verrebbe violato il Principio di Indeterminazione di Heisenberg: deve dunque esistere un’energia sconosciuta associata al vuoto. Tale energia viene chiamata Energia di Punto Zero, e potrebbe tra l’altro essere una delle possibili spiegazioni del fenomeno chiamato “Energia Oscura“, che causa l’accelerazione dell’espansione dell’Universo.
Come si manifesta l’Energia di Punto Zero? Immaginate che per un secondo, dal nulla, compaiano due particelle, una di materia e una di antimateria, che immediatamente si scontrano e si annichilano: l’annichilamento produce energia, e questa è proprio l’energia associata al vuoto.

Per quanto sembri un meccanismo strano, in fisica niente, nemmeno una fluttuazione di energia, può avvenire senza particelle mediatrici. Ma se questo fenomeno di creazione e annichilazione avviene vicino all’Orizzonte degli Eventi, le cose cambiano: infatti l’energia gravitazionale perturba questo fenomeno, attirando una delle due particelle all’interno del buco nero, e permettendo all’altra di sfuggire. Affinché si conservi l’energia, occorre che la particella attirata all’interno sia quella di energia negativa… quindi il buco nero “perde” energia, e quindi massa (in quanto sappiamo, da Einstein, ce la massa e l’energia sono concetti interscambiabili).
Dunque al termine di questa stranissima interazione, il buco nero ha perso massa, mentre una particella sta scappando dal buco nero (quella creata vicino all’Orizzonte degli Eventi e che è riuscita a sfuggire): di fatto è come se il buco nero avesse emesso una particella, anche se nulla è realmente uscito dall’Orizzonte degli Eventi.
C’è un’altro modo di vedere il fenomeno, ed è quello di immaginare che delle particelle riescano ad uscire dall’Orizzonte degli Eventi grazie all’effetto Tunnel, un fenomeno per cui le particelle quantistiche possono “saltare” delle barriere di potenziale (elettrico o gravitazionale) invece di attraversarle.

Questa emissione di particelle dal buco nero prende proprio il nome di Radiazione di Hawking.

Abbiamo anche visto che l’entropia di un buco nero deve necessariamente aumentare quando questo acquisisce massa… dunque quando il buco nero emette radiazioni di Hawking l’entropia deve diminuire (l’entropia totale dell’Universo aumenta sempre, in quanto guadagna l’entropia della particella emessa) . Ma l’entropia è inversamente proporzionale alla temperatura (l’entropia è data dal calore diviso per la temperatura, Q/T), quindi la radiazione di Hawking è tanto più calda quanto più il buco nero è piccolo, e allo stesso modo aumenta la temperatura della radiazione emessa.
Questo, tra le altre cose, significa che l’emissione accelera sempre di più man mano che il buco nero perde massa: dunque un buco nero che fosse sufficientemente isolato (e quindi non acquisisse massa dalle stelle e galassie circostanti) continuerebbe a rimpicciolire nel tempo sempre più velocemente, fino ad evaporare del tutto!
I buchi neri quindi non sarebbero assorbitori infiniti ed eterni, ma oggetti con una ciclo vitale ben definito.

La Radiazione di Hawking, se confermata, risolverebbe quindi diversi problemi teorici relativi ai buchi neri… ma per osservarla sperimentalmente ci imbattiamo in un altro problema: l’Universo infatti non è totalmente freddo, ma è permeato dalla radiazione di fondo, una sorta di “eco” del Big Bang, che consiste in una radiazione diffusa in tutto il cosmo, la cui temperatura è di circa 2.7 K (-270°C circa).
Affinché la radiazione emessa dal buco nero sia visibile occorre che il buco nero ne emetta più di quanta ne assorbe, e quindi che l’energia della radiazione emessa sia superiore all’energia che il buco nero assorbe dalla radiazione di fondo.
Questo si traduce nel fatto che il buco nero dovrebbe emettere radiazione di Hawking ad una temperatura più alta di 2.7 K, e quindi dovrebbe avere una massa molto piccola. Quanto piccola? Beh, davvero molto, molto piccola: pari a circa un ottavo della massa della Luna!

Nessun collasso stellare può generare buchi neri così piccoli. Tuttavia, all’inizio dell’universo, quando esso era ancora estremamente denso, è perfettamente possibile che si siano formati buchi neri di questo tipo, e che siano evaporati molto rapidamente, proprio grazie alla radiazione di Hawking.
Se fosse possibile osservare questi buchi neri primordiali, magari proprio grazie alla radiazione emessa mentre “evaporavano” (ricordiamo che in astrofisica guardare più lontano significa anche guardare più indietro nel tempo), avremmo la prova che le ipotesi di Stephen Hawking sono verificate.
Il fatto che fino ad ora tali osservazioni non siano state effettuate (per limiti tecnologici) è, con ogni probabilità, il motivo per cui Stephen Hawking non è stato, fino ad ora, insignito del premio Nobel (come dichiarato anche da Hawking stesso).
Nei prossimi anni ci si appresta ad effettuare nuove misure con telescopi di nuova generazione, che si spera dovrebbero essere in grado di individuare la radiazione emessa dai buchi neri primordiali, affinché questa possa venire confrontata con le previsioni dello scienziato. Se tali previsioni dovessero risultare verificate, il premio Nobel (postumo) sarebbe probabilmente garantito.

La radiazione di Hawking, per come fu formulata originariamente nel 1974, non risolveva il problema della perdita di informazione. Per questo negli anni sono state proposte numerose correzioni alla teoria di Stephen Hawking, alcune delle quali da Stephen Hawking stesso.
L’ultima di esse, descritta in un articolo relativamente recente (2015), è particolarmente suggestiva, e quindi ve la voglio descrivere… vi ricordate che cosa succederebbe se io cadessi in un buco nero?
Io vedrei l’universo accelerare sempre di più, a causa del fatto che il mio tempo sarebbe rallentato… e il resto dell’universo vedrebbe me rallentare sempre di più, fino a vedere la mia immagine ferma per sempre sull’Orizzonte degli Eventi, sul quale il mio tempo (nella “loro” percezione) sarebbe fermo.
Secondo Hawking (e colleghi), le informazioni relative al mio stato fisico rimarrebbero codificate proprio in questo mio ologramma stampato per sempre sulla superficie dell’Orizzonte degli Eventi. Lascerei sostanzialmente una sorta di “eco”, che contiene le informazioni necessarie a salvaguardare il Principio di Unitarietà: questa teoria prende il nome di Principio Olografico.

Stephen Hawking è stato un personaggio dalla grandissima umanità e ironia, capace di apparire come ospite anche in show come The Big Bang Theory e Last Week Tonight; è stato inoltre un grandissimo divulgatore, che con i suoi libri è riuscito a trasmettere nozioni di fisica complicatissime ad un pubblico vastissimo in maniera semplice quanto una lezione di matematica di scuola superiore.

Ma i suoi più grandi successi sono quelli che ha ottenuto come astrofisico, per questo ho ritenuto opportuno cercare di fornire una spiegazione di essi ai nostri lettori. Da ateo, per un ateo, nell’impossibilità di augurare buon viaggio verso un luogo che non credo (e che Hawking non credeva) esistere, era il meglio che potevo fare.

Luca Romano

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