In Saggio sul dono l’antropologo francese Marcel Mauss ha regalato alle scienze sociali il suo concetto più noto, quello di “fatto sociale totale”.
Il concetto di “fatto sociale totale” ha due significati, uno teorico ed uno epistemologico:
- nella teoria, è “fatto sociale totale” un fenomeno che funziona da antecedente causale rispetto ad una serie di fenomeni minori e più diffusi, i quali discendono come conseguenze da questo;
- nell’epistemologia, più cara agli addetti al mestiere, il “fatto sociale totale” è un segno da interpretare, un fenomeno che mostra allo stato puro le logiche che percorrono ed ordinano una data società.
In questo senso, non importa tanto il “fenomeno come elemento originario della catena causale”, quanto il fatto che le sue caratteristiche rispecchiano – in forma spuria – una infinità di ambiti organizzativi e simbolici di una società.
Alcuni recenti fatti avvenuti in un comune nella prima cintura di Torino, Settimo Torinese, permettono di mostrare la perdurante attualità e universale applicabilità del concetto di Mauss: il fatto sociale totale di Settimo Torinese ai tempi del Covid-19 è il pacco alimentare.
Non in senso metaforico, proprio un pacco vero.
Un “dono” distribuito dall’amministrazione comunale ai cittadini in stato di necessità.
La storia: in seguito all’assegnazione di 260.000 euro al comune di Settimo per gestire l’emergenza alimentare connessa al lockdown, la neosindaca in quota PD decide di tentare la strada del pacco alimentare.
Dopo una contrattazione con due attori della grande distribuzione locale, riesce ad ottenere un prezzo all’ingrosso per beni alimentari di prima necessità da distribuire, sotto forma di pacco alimentare, a 850 famiglie della città.
La scelta del pacco al posto dei buoni spesa – che lascerebbero più spazio alla scelta individuale – è giustificata esponendo i termini dell’accordo tramite diretta FB: l’accordo prevede la fornitura dei beni alimentari al prezzo d’ingrosso, dunque con un risparmio del 30% rispetto all’opzione dei buoni pasto; così si potrà dare di più a più persone, senza lasciare nessuno indietro.
La questione valoriale che sottende la scelta del pacco è importante, e riguarda una domanda, destinata a tornare assillantemente nei prossimi tempi:
Chi sono i poveri?
Il pacco, di fatto, è puro assistenzialismo: non c’è spazio per l’azione del soggetto ricevente.
Il pacco dipinge i poveri come figure poco più che animalesche: l’importante è che sopravvivano, la libertà di scelta non conta molto.
Primum vivere, deinde philosophari: è il ritorno di Maslow in carrozza e con squilli di trombe.
Ma siamo sicuri che l’alternativa sarebbe stata migliore? Avremmo abilitato i bisognosi ad accedere al diritto all’agency tramite la possibilità di scegliere, ma forse qualcuno sarebbe rimasto senza cibo.
Eppure, dall’altro lato, è veramente uomo colui che, nel 2020, non ha facoltà di agire e scegliere?
I valori umani variano, e con essi varia la concezione di cosa è umano, di cosa ci definisce persone piene; e sicuramente la capacità di formulare scelte ed agire di conseguenza, in questo inizio di ventunesimo secolo in cui il principale ordinatore sociale è l’economico, è un valore centrale per il riconoscimento sociale e l’amor proprio.
La povertà in relazione al pacco
La domanda su cosa siano i poveri si fa più assillante ogni giorno che passa.
A fare detonare la situazione è un video di un uomo, L., molto attivo su uno dei gruppi FB della città e di orientamento politico vicino alla destra sociale.
L., venuto a conoscenza del fatto che una donna è rimasta da giorni senza cibo senza che il suo claim venga immediatamente riconosciuto dai servizi sociali, decide di agire: fa una spesa e si precipita a casa della signora per consegnargliela gratuitamente – il tutto in diretta FB. Il gesto eroico ispira i ringraziamenti commossi della donna, infiamma la polemica contro l’amministrazione ed i servizi sociali.
La scarica emozionale porta L. a dichiarare che il gesto di carità verrà ripetuto.

Sui social scoppia un’altra polemica: i pacchi alimentari sono miseri, non bastano per una famiglia di quattro persone – o almeno così argomentano alcuni percettori, allegando foto di pacchi effettivamente striminziti.
Qui scoppia la bufera. Emerge un cleavage – una spaccatura – all’interno dei percettori del pacco: alcuni ringraziano il comune di non farli morire, dopotutto durante la guerra si stava peggio (ecco dov’è va a cadere la retorica massmediatica dei “tempi di guerra”!), a caval donato non si guarda in bocca; altri fanno polemica – è scandaloso che il comune ci mantenga appena sul limite della sussistenza.
Alcune di queste persone le conosco, inveivano contro i rifugiati palestrati e con gli smartphone – un contrappasso notevole, vero? Chi voleva ridurre l’immigrato a nuda vita si trova ridotto a sua volta ridotto a nuda vita, e protesta. Ma in questa storia c’è tanta sofferenza umana, e il dramma è troppo ingombrante per lasciarsi andare a pensieri sull’ironia della vita.
Ma il cleavage si produce anche tra chi il pacco non lo percepisce.
Una conversazione tra tutte è illuminante*:
- Il giovane B. – integrato, benestante, di orientamento progressista – sgrida i protestatori: “Ma come vi permettete di lamentarvi davanti al comune che vi fa un regalo! In altri Paesi altro che regali, se c’è il lockdown ti metti in mutua, e poi se la finisci rinunci allo stipendio. Qua tutti assistenzialisti, volete gli aiuti e fate pure gli schizzinosi.
Al che, a mia sorpresa, arriva il commento di P.: “Il pacco è un diritto, non è un regalo, le persone che lo ricevono sono parte di questa società e contribuiscono come noi a questa società. Se oggi sono in difficoltà è nostro dovere aiutarli, perché potrebbe un giorno toccare a noi e comunque io voglio che la mia città sia un luogo ordinato e pacificato, dove la gente non muore di fame – d’altra parte abbiamo dato soldi ai fannulloni del reddito di cittadinanza”.
- B. risponde: “Siete degli ignoranti“.
Il sottotesto squisitamente ironico è che B., come detto, è squisitamente un “ragazzo progressista”, mentre P. è uno che un mese fa aveva proposto di dipingere un fascio littorio di venti metri in giallo e nero sulla facciata grigia di un palazzo del quartiere, a spese del comune.
Disfare il Demos
Il testo di Wendy Brown sulla logica del neoliberalismo si apre con l’analisi di un discorso di Obama.
La tesi è la seguente: persino la parola del campione della sinistra liberal è egemonizzata dalla logica del neoliberalismo, che sostituisce la carità ai diritti e che vede nell’economico l’unico principio ordinatore della società – il fatto sociale totale dei nostri tempi, nel primo dei sensi che ho esposto sopra.
Secondo Wendy Brown, il neoliberalismo rischia di avere la capacità di distruggere il Demos: tramite il predominio accordato all’ordinatore economico per la prima volta nella storia, rischia di venir meno la stessa capacità di pensare la democrazia e i diritti.
Rischia anche di venir meno la concezione dell’umano come essere incompleto e in cerca di realizzazione e riconoscimento sociale, sostituito da una bestia affamata in una competizione tutta darwinistica da combattersi a colpi di investimenti nel proprio capitale umano come arma affilata per la sopravvivenza del fittest – o “meritevole”.
Nel 2016 pareva francamente un po’ troppo perino per me.
Ma oggi penso alle parole di B. Poi penso alle parole di Bonaccini (PD) e Salvini (Lega) sui percettori di reddito di cittadinanza che devono lavorare nei campi.
Poi penso ai protestatori contro il pacco misero, che ieri ringhiavano contro gli smartphone e i muscoli degli africani. Penso anche al doppio standard, assurdo, del neofascista che maneggia il discorso dell’eguaglianza sostanziale (per dare acqua al mulino del proprio partito? Per dar contro a tutti gli altri? O anche perché, tra tutte le contraddizioni che lo contraddistinguono, è l’ultimo residuo di un “popolo” capace di pensare una solidarietà concreta?).
E mi dico che sì, forse Wendy Brown aveva ragione, forse la postmodernità ha disarticolato del tutto il discorso della comunità statuale come luogo della solidarietà, della redistribuzione e dei diritti di cittadinanza.
Poi penso ai runners: quando vediamo solidarietà di massa, oggi, questa si manifesta come solidarietà contro. Solidarietà dei tanti, conformi alla regola imposta alla comunità dall’alto, contro il deviante di turno.
Pessimi segnali.
Con chi parlare se si vuole una società più solidale?
Dietro la storia dei pacchi c’è un altro segmento sociale, che io conosco bene e di cui sono parte. Una minoranza attiva ma a volte silenziosa.
Sono tutte le persone che sono state reclutate dal comune per distribuire gratuitamente i pacchi. Persone socialmente attive, o comunque inserite in reti di partecipazione e volontariato locale, attraverso le quali sono state reclutate dall’amministrazione.
Queste persone vivono quasi quotidianamente l’esperienza della solidarietà, della condivisione, del cercare di costruire attivamente una società un pelino più umana, con tutti i limiti che ha ognuno di noi. Queste persone a volte sono un po’ snervanti per il loro effettivo buonismo, per il totale rifiuto delle dimensioni conflittuali della convivenza.
Voglio credere che per molti di loro tutto sommato B. abbia detto sciocchezze, che il non morire di fame sia un diritto e non un regalo.
La società civile, a Settimo Torinese come altrove, è viva e vegeta. Ma a Settimo Torinese come altrove ha anche le sue gatte da pelare e i suoi dilemmi.
E se è vero che B. ha una concezione da barone d’industria dell’800 (pur non essendolo!), dall’altra parte ci sono i barbari, quelli pronti a sfruttare il malcontento sociale per demolire la narrazione ottimistica promossa dalla sindaca, tutta civismo smart e innovazione sociale, in cui c’è poco spazio per le tragiche fratture della società in cui viviamo. Sindaca che, per capirci, è stata eletta grazie ad un’alleanza elettorale che tiene assieme i tanti B. della mia cittadina e proprio quella parte di società civile attiva.
Che deve fare, il mondo della cittadinanza attiva? Lasciarsi andare al Sardinismo – mantenendo un’alleanza strategica coi tipi come B., per fare quadrato attorno a quel barlume di equilibrio para-progressista che resta – oppure ingaggiare un confronto curioso col barbaro P., che oggi dimostra buon senso e umanità anche se domani tornerà a urlare contro diversi e non-conformi?
Chissà se il dilemma è davvero questo anche ad un livello più ampio. Davvero possiamo solo scegliere tra proteggere come Sardine l’establishment liberale durante il crollo dell’impero o, vestendoci da rosso-bruni, mischiarci con le rivendicazioni pseudo-polanyiane che partono dalla base della nuova destra sociale – rivendicazioni peraltro rigorosamente disattese dai vertici di partito, la cui esperienza di governo non a caso ha ispirato la scienza politica a produrre il concetto di simulative politics, politica della simulazione.
I redneck del Tea Party e la barca che affonda
I redneck del Tea Party non sono, secondo Arlie Hochschild, i buzzurri ignoranti e amorali dipinti dai liberal della costa.
Sono persone mediamente povere e che vivono in un ambiente depredato dalle corporations, che però rifiutano l’intervento dello Stato e disprezzano il welfare perché vedono nelle politiche sociali il peso di uno stigma: lo stigma della carità ricevuta, che rende il ricevente debitore e pone chi la concede in una posizione di credito e superiorità.
I redneck del Tea Party sono forse vittime inconsapevoli, portatori insani della logica di B., che vede nel welfare un regalo e non un diritto collegato alla solidarietà che deriva dall’esser tutti sulla stessa barca.
I redneck del Tea Party rifiutano, per tutelare l’amor proprio, il welfare e le dottrine liberal, che li dipingono come poveri da curare e ignoranti incapaci di capire i propri reali interessi.
Sono stati i redneck del Tea Party a lanciare Trump, prima nel GOP e poi alla conquista della Casa Bianca.
Ecco.
Forse dovremmo capire che, se vogliamo evitare che il fascismo ritorni e il negazionismo ambientale devasti la Terra, sarebbe il caso di prestare attenzione all’amor proprio di quelli che chiamiamo poveri – e spesso anche ignoranti.
Siamo sulla stessa barca, e se li trattiamo come pezzenti magari non ci sapranno controbattere e potremo ridere delle loro reazioni sgrammaticate; ma essi hanno forse meno da perdere rispetto a noialtri, colti e semicolti: mentre noi troviamo il nostro pride nel vedere quanto siamo belli e intelligenti rispetto a loro, loro lo potrebbero trovare una qual certa realizzazione nell’affondare la barca sulla quale, ripeto, galleggiamo a stento tutti quanti.
* Nonostante le virgolette non ho riportato letteralmente la discussione tra B. e P., per motivi di brevità. Mi sono limitato a riprodurne le argomentazioni.
Robin Piazzo